COUNSELING E MODELLAMENTO. Farsi specchio per l’altro da noi

Inviato da Nuccio Salis

modellingChe sia l’imitazione, la base da cui partire per costruirsi successivamente una identità propria è un processo risaputo e varie volte messo in rilievo dalle ricerche inerenti l’età evolutiva.
Avere uno spunto, un modello verso cui orientarsi ed assorbire al tempo stesso le caratteristiche salienti del medesimo, risulta una tappa precorritrice e fondamentale del percorso verso l’individuazione. I bambini, mediante l’attività imitativa, introiettano le parti essenziali dei profili comportamentali e socio-affettivi dei loro rispettivi caregivers. Riproducendo i moduli personologici coi quali sono più a contatto, i bambini sperimentano il senso di loro stessi, eseguono insomma prove e test di identità, allenando abilità motorie e propriocettive, strettamente collegate con il processo della conoscenza di se.
Tale fenomeno, facilmente osservabile e frequentemente visibile, nasconde un tragitto di maturazione che non si appalesa allo sguardo profano,oppure distratto o superficiale. In realtà, esiste un itinerario evolutivo che conduce per esempio il bambino, mediante l’imitazione, ad impossessarsi del linguaggio simbolico e di compiere astrazioni differite, che consistono in pratica nella capacità di riprodurre il modello acquisito in uno spazio –tempo asincrono rispetto al momento in cui il modello stesso si esperisce. L’esperienza simbolica, inoltre, è di fatto una trasformazione iconico-creativa di immagini di uso comune o figure caricate da alta valenza affettiva.


Insomma, il passaggio progressivo dell’attività imitativa da assimilazione generale di un modello alla gestione personale e creativa della stessa, seppur in linea con la traccia complessiva dello stesso, testimonia una immancabile consegna verso lo sviluppo di maggiori competenze sulla conoscenza e sulla rappresentazione di se. Eppur si comincia con l’aderire ad una sorta di “prodotto” personologico già impacchettato. In sintesi, nella replica motoria di un modello “guida”, il bambino pone le basi per importanti apprendimenti successivi che lo condurranno alla ricerca ed alla conquista di un proprio se.
L’iniziale rapporto rudimentale con un Sé adulto, metterà il bambino all’interno di un orizzonte asimmetrico dentro il quale, per tendente ed interessata compiacenza sarà incline a riportare fedelmente le proprietà del modello con cui si confronta. In tali proprietà rientrano non soltanto gli aspetti della motricità, quanto anche le forme del pensiero, i costrutti, i valori e gli atteggiamenti. Dunque, l’interiorizzazione da parte del bambino, in merito a tutto questo, riguarderà più avanti una più raffinata identificazione con l’insieme dei tratti distintivi del modello. La finalizzazione dell’intero processo riguarderà la capacità di modificare l’assetto complessivo del modello interiorizzato, rendendolo in qualche modo personale, cioè strumento indicativo di una dinamica e continuativa soggettivizzazione.
L’illustre psicologo e ricercatore James Baldwin (1861-1934) descrisse a tale proposito un processo di crescita che chiamò “stadio eiettivo”, intendendo con questa espressione uno stadio dello sviluppo psichico dell’infanzia, consistente nel raggiungimento della conoscenza su di se e su gli altri, nella dimensione della reciprocità, mediante l’imitazione delle azioni altrui. Grazie alla capacità imitativa, riassumendo Baldwin, il bambino sarebbe in grado di effettuare la transizione da un Io ideale, proiettivo, risultante del ricalco col modello dominante, ad un senso di se maggiormente cosciente, da investire in modo costruttivo in tutte le relazioni interpersonali, incluso nel rapporto che ha funto da modello ispiratore.
Certo, la specificità del modello originale costruito del bambino non consiste in una radicale distinzione dal prototipo originario, ma nemmeno è intanto una semplice copia dell’esemplare da cui ha ricavato propria forma e sostanza.
Forse nemmeno l’adulto cade poi così lontano dall’albero.
Un segno di una sistematica somiglianza fra modello dominante e modello inizialmente dominato, si può osservare dal momento che il bambino, pur nella sua tipica ambivalenza, si ammanta delle prescrizioni e di una certa forma mentis normativa propria del modello da cui in qualche modo ha preso foggia. In pratica, nel prelevare un certo capitale di regole e doverizzazioni, cerca di diffonderne una percepita giustezza di fondo, attivando un suo sistema morale interno, agendo ciò che i transazionalisti chiamano “Bambino elettrodo”. In sintesi, attraverso il modellamento per imitazione, il bambino risulta genitorializzato, in termini di profili interni del Sé. È pronto cioè anche a comprendere ed accogliere concetti come responsabilità, espiazione, giustizia.
Naturalmente, l’esistenza socio-relazionale è assai più complessa, e questo darà modo al bambino, anche a fronte di corrispettivi rischi, di proseguire e completare il suo cammino formativo.

Come infatti ci ricorda l’intramontabile Jean Piaget:


“ […] l’imitazione ci permette di percepire in noi soltanto ciò che è comune con gli altri. Per scoprirsi in quanto individui particolari, è necessario un confronto continuo, che si attua attraverso opposizioni, discussioni e reciproci controlli: così la coscienza dell’io individuale compare più tardi di quella relativa a ciò che vi è di generale nella nostra psicologia” (cit. in “Il giudizio morale nel bambino, p. 406)

 

Dunque, l’imitazione non è di per se garanzia di pieno e definitivo raggiungimento della propria individuazione. Eppure è un ottimo punto di partenza, e spesso, sia nei processi di apprendimento strutturato che nei processi di formazione, fino ad arrivare al modellamento educativo e finanche ai rapporti amicali, quando si desidera rispettivamente illustrare, insegnare, condurre, guidare, influenzare o sostenere l’altro, si ricorre pressoché automaticamente a tale strategia.
Questa tecnica è fra l’altro ben nota e collaudata oramai anche all’interno della relazione di aiuto tipo counseling.
Dal momento che ci poniamo con un'altra persona l’obiettivo di facilitare il suo cammino di crescita ed espandere le sue opzioni esistenziali, non possiamo fare a meno di creare una relazione che influenza, e di utilizzare la stessa come lo strumento principale del percorso e dell’intervento che proponiamo. In pratica, in quel momento, siamo modelli di vita, che si offrono in modo genuino e trasparente sotto la visione dell’altro da noi. Accogliendo uno stile esistenziale differente dal nostro (quello del cliente), al tempo stesso, senza rendercene troppo conto, bocciando l’illusione di essere impeccabilmente neutri, essendo umani troppo umani promuoveremo invariabilmente l’incontro presumibilmente arricchente fra due ipotesi di mondo e di vita.
Certo, la tentazione da vincere consiste nel non sovrapporci alla biografia dell’altro da noi, anche se realizzando una naturale assimetria data dalla distinzione di impegni, compiti, competenze e responsabilità, ci ritroveremo quantomeno a dover gestire l’aura di profeta Salvatore di cui facilmente potremmo essere investiti da parte di chi anela risposte, soluzioni, interventi facilitanti dai risultati immediati e tangibilmente misurabili.
In pratica, possiamo tenere conto che con una certa probabilità potremmo essere imitati. E che questa propensione, da parte del cliente, nell’identificarsi in noi, deve essere accuratamente gestita, dal momento che la presenza dello stesso trova senso proprio nella ricerca di una maggiore autonomia identitaria e fattuale, esperita mediante una migliore ed auspicata qualità riscontrabile.
Parallelamente al discorso sul processo imitativo dei bambini, quindi, il cliente che entra nella relazione asimmetrica di counseling attivando il suo Io Bambino, dovrà essere aiutato nel riconoscerne ed esprimerne le più vitali componenti di sperimentazione e spontaneità, evidenziandogli e rimandandogli eventuali comportamenti o atteggiamenti di passività compiacente o piena identificazione nei confronti del professionista facilitatore.
È d’altronde un modo efficace per proseguire nella nostra opera che è in un certo senso un cammino “rigenitorializzante” offerto a chi si affida alla nostra consulenza.
Ben venga la reciprocità all’interno di un clima di fiducia e collaborazione, in quanto promuove una sana alleanza fra le parti, e al tempo stesso si monitori il prosieguo dell’esperienza affinchè il cliente non trascenda in una acritica complementarietà, dalla quale potrebbe uscirne invischiato perfino il counselor che concede poca attenzione a questo aspetto.
D’altronde, gestire un cedevole passivo è più facile, può darci la rara ebbrezza del pieno controllo della situazione; ma da lì a stabilire una relazione disfunzionale e un gioco sociale di ruolo, il passo è breve, anzi brevissimo.
È quindi meglio farsi sempre specchio, uno specchio scivoloso, che restituisce tutto: pareri, sentimenti, vissuti, responsabilità, domande, preoccupazioni, dubbi. Uno specchio pulito, trasparente, presente, che non manca mai di restituire l’immagine, e per l’appunto un’immagine rovesciata, che accoglie ma confuta, che accetta ma pungola, che comprende ma stimola; poiché c’è una direzione da cui non si può debordare: guidare l’altro verso la conquista di se.

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