Le parole del counseling. Alcune precisazioni su contorni e confini semantici

Inviato da Nuccio Salis

spiritoMi rimarranno sempre impresse le calde raccomandazioni di un docente universitario di filosofia durante le sue lezioni, rivolte a noi studenti, con tono non certo stentoreo ma autorevolmente secco e deciso, sul tema riguardante il potere evocativo della parola. Benché non fosse nemmeno quella la tematica affrontata durante le lezioni, il Professore lamentava a ragione un uso a suo avviso troppo leggero e superficiale circa i vocaboli della filosofia ma non solo. “Le parole in filosofia sono pietre”, disse testualmente un bigio pomeriggio dicembrino, come a tuonare da un cielo che nonostante il suo umore caliginoso sembrava essersi intimidito dal promuovere un bel temporale. Il richiamo che ci rivolgeva consisteva nel prestare una fine attenzione ai significati dei vocaboli ed alla loro matrice semantica, senza ignorarne il potere esortativo concettuale, semmai valorizzarlo ed usarlo appropriatamente, perché questo era davvero un buon segno che si era arrivati a comprendere il linguaggio della disciplina. Anima non è Spirito, l’ignoranza non è l’insipienza; sono esempi di precisazioni semantiche che venivano sciorinate e sezionate analiticamente alla luce delle accezioni attribuite dalla Grande Madre di tutte le scienze umanistiche occidentali.

Questo ricordo, unito ad una personale e già esistente maniacale attenzione nell’uso ponderato delle parole, mi ha indotto a dedicare la medesima cura ad alcuni termini abitualmente adoperati nell’ambito del counseling. Certo, quel che conta sono soprattutto le proprie intenzioni inviate e condivise, il clima costruito, l’umore partecipato e l’atteggiamento soprattutto non verbale di accoglienza e di accettazione non vincolata. Congiuntamente a tutto questo, credo che occorra comunque interiorizzare il corretto significato di alcuni vocaboli e soprattutto esplicitarli sul versante pratico nel pieno del loro valore e peso semantico. Mi piacerebbe ora proporre ed argomentare un elenco di tali precisazioni, dal momento che il complessivo impianto teorico-pratico mi ha posto di fronte a questa curiosa esigenza:

 

A). CHIEDERE ma non INTERROGARE: Nella pratica del counseling, ci si trova spesso di fronte alla necessità di dover formulare domande. Lo scopo prerogativo ed esclusivo di esse deve vertere verso la completezza e la chiarezza dei significati o delle tracce biografiche presenti nel tema portato dal fruitore del processo formativo. È meglio tenere sempre a mente che le stesse sono considerate, nella pratica della conduzione del processo di counseling, uno strumento a valenza semidirettiva; e pertanto l’uso delle stesse deve essere saggiamente ponderato, gestito efficacemente sotto l’aspetto quanti-qualitativo, in quanto dotate sempre di un certo immancabile valore di impatto psico-emotivo sull’altro. Sarebbe prudente non inviare domande a raffica, o programmare ciascun step di intervento con domande; così come sarebbe altrettanto cautelativo evitare domande troppo invasive, intime, se non addirittura fuorvianti, suggestive o induttive che promuovono compiacenza e passività, chiuse che obblighino ad una scelta dualistica ed impersonale, o la classica domanda “Perché non…”, che tende a costruire una relazione dove noi ci assurgiamo a sapienti suggeritori, depotenziando l’altro nella sua autonomia e responsabilità, spingendolo a un comportamento regressivo, in quel “la e altrove” in cui si sentiva pressato da rimbrottanti adulti dai quesiti incalzanti. Dunque, a rigor di attestato sul peso delle parole, domandare “Secondo lei cos’altro avrebbe potuto fare per…?” in alternativa al “Perché non…?”, esprime una qualità del chiedere e non dell’interrogare. La costruzione di un clima che favorisce una sana e congruente auto rivelazione è destinata in gran parte ad appannaggio delle domande e del loro saggio ed oculato utilizzo.

B). STIMOLARE ma non SUGGERIRE: Uno degli atteggiamenti comunemente più frequenti, quando si riceve da altrui una confessione o una confidenza, è quello di sovrapporre a questo un suggerimento legato al “Tu devi fare così”, colla conseguenza di delegittimare il vissuto personale dell’altro, di negargli stima, responsabilità, capacità di reazione e di interpretazione sulla sua esperienza. Il suggerimento è sempre impersonale, poiché ciò che ha funzionato per me, infatti, non possiede la certezza causale che determinerà le medesime conseguenze sull’altro. Detto questo è altamente probabile che ascoltando empaticamente, potremmo anche renderci conto che l’altro può trovarsi anche prossimo alla soluzione della sua vicenda, e che potrebbe arrivarci da solo se cominciasse anche a ribaltare percettivamente l’oggetto complessivo delle sue preoccupazioni. Tale percorso si può affrontare se l’altro riceve da noi professionisti, puntuali riconoscimenti e input in grado di eccitare un autonomo processo di problem-solving.

C). INFORMARE ma non SOLUZIONARE: Tutte le tecniche semidirettive si approssimano al rischio di esporci a un ruolo complementare di guida che risolve, che decide e sceglie per l’altro. Se ci siamo formati nel destrutturare questa sindrome di Superman, sappiamo che utilizzeremo tali strumenti laddove la qualità della fiducia a noi accordata nella relazione ha raggiunto una sorta di dimensione del “dove ogni cosa utile è proponibile”. Se e quando il nostro interlocutore è deducibilmente pronto, possiamo fornirgli una serie di dati oggettivi e verificabili che lo sollecitino ad una spinta motivazionale che lo conduca all’azione. È importante che ciò venga vissuto (ed infatti per questo venga svolto) nella piena autonomia delle proprie azioni, onde evitare la sensazione di essere costretti. Per questo ordine di motivi sarebbe più opportuno consegnare dati a più opzioni, di modo che assumano con più facilità la declinazione del “Puoi” piuttosto che quella del “Devi”. Parole ed atteggiamenti si fondono in un modello efficace che accompagna senza forzature o frustanti pressioni.

D). INCORAGGIARE ma non COMPATIRE: Portati per natura alla condivisione degli aspetti emozionali esperiti dal prossimo, è pressoché automatica, di consueto, l’attivazione della risposta paternalistica del “su non fare così”, “vedrai che tutto si sistema”, “mi spiace che sia capitato proprio a te”. Il corollario delle espressioni da vicino di casa, che sta scaricando la spesa dall’auto che blocca il traffico, è sempre dietro l’angolo. La fretta, il disinteresse, l’incapacità di entrare in sintonia empatica con l’altro, ci porta quasi sempre a minimizzare, evitare di cogliere informazioni importanti anche non palesemente esplicitate, a rispondere per comode frasi fatte che ci liberano dall’incombenza del prestare attenzione all’altro. Chi espone un problema, in genere, ha certo anche un più o meno deliberato bisogno di essere sostenuto sotto il profilo psico-affettivo, e tuttavia legittimamente rifiuterebbe un intervento pietistico, volto soltanto a costruire il gioco interpersonale fra Salvatore e Vittima. L’incoraggiamento prestato durante il confronto all’interno del counseling, è una proposta di attivazione e mobilitazione per l’altro, che è certificato da una restituzione chiara e precisa su contenuti ed aspetti emozionali dell’interlocutore. “Sto con te”, “Sento quello che provi”, “Comprendo quello che stai sentendo”, non sono espressioni di giustificazione passiva con le quali si strumentalizza la passività altrui; a patto che ulteriori messaggi verbali e non verbali punteranno nella direzione del “e allora? A fronte di tutto questo ora come si può agire?”; cioè verso un percorso dentro cui l’altro assume se stesso come punto di riferimento, sapendo che esiste una fonte di aiuto che lo aiuta a monitorarne il cammino.

E). INFLUENZARE ma non CONDIZIONARE: Il nostro ruolo e la nostra persona, qualunque sia il rispettivo spessore, esercitano un impatto sull’altro. La natura di questo impatto è quasi del tutto legata ai vissuti ed agli abituali schemi di lettura della persona con cui entriamo in contatto. Se il nostro modello di ruolo e di persona è congruente, autentico, aperto, affabile, cordiale ed accettante, avremo già a disposizione lo strumento di intervento più efficace che esista: noi stessi. Il nostro atteggiamento e i nostri esempi, non a caso, hanno una funzione educativa di straordinaria ascendenza, e valgono più di mille prediche e pistolotti. E nella stessa misura con cui veniamo influenzati, offriamo allo stesso tempo all’altro una parte di noi: messaggi Io, comportamenti non verbali, cura dell’intero processo comunicativo, costituiranno fattori decisivi per stimolare il prossimo ad un allargamento delle proprie opzioni di vita, sia concettuali che fattuali. Il tutto, conoscendo l’enorme differenza fra organismo semplice, dai comportamenti schematici e limitati, ed organismo complesso, col suo repertorio potenziale di espressione legato ai metabisogni. Perché l’uomo non si addestra, per la stessa ragione per cui un cane non si educa.

 

È questo il mio elenco basato sul confronto fra precisazioni in merito a certe sfumature semantiche di parole che, se nel linguaggio comune possono essere legate a un rapporto intercambiabile di sinonimia, non possono esserlo a mio inutilizzabile parere nel campo del counseling. In questo settore, infatti, abbiamo il dovere di aumentare la nostra consapevole attenzione sul significato profondo di certi termini, per assumere atteggiamenti che promuovano nell’altro la scoperta della bellezza di se e della propria libertà di scegliere, perché abbiamo il compito di GUIDARE, ma non di PILOTARE.

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