Famiglia, immagine ed altre prigioni (settima parte)


conversazioneQuando ho avuto l’occasione di iniziare lo sportello d’ascolto, come esperienza formativa di tirocinio al terzo anno, ho capito quanto fosse vera l’espressione usata spesso dal Presidente della mia sede A.S.P.I.C., Marco Andreoli: “l’universo è generoso!”. L’ho pensato immediatamente quando mi sono trovata ad affrontare una prima “cliente” che portava una tematica in qualche modo simile alla mia, legata alla sua autostima, all’immagine di sé, alla sua difficoltà nel delimitare i propri confini personali, lasciandosi spesso invadere dalle altre persone e dal mondo, una ragazza che come me, per potersi aprire al meglio e per poter stare con le emozioni, aveva bisogno di lavorare a terra. Per un attimo ho temuto di non essere in grado di affrontare questa situazione, la prima volta con un cliente e proprio questi argomenti, quelli con i quali stavo a mia volta facendo i conti: “sarò efficace?” mi chiedevo, “sarò in grado di sostenerla lungo questo breve percorso di auto-esplorazione e di scoperta?”.

 

 

So che la preparazione personale del counselor e la conoscenza di sé, sono due dei presupposti fondamentali per favorire il processo di crescita in un altro individuo, so che non si può assolutamente pensare di poter svolgere una professione come questa, se non si è fatto un profondo lavoro su se stessi e se non si sono chiuse un po’ di gestalt personali... Avrei voluto essere in grado di delineare un punto di partenza e un punto di arrivo, così come prevedono i piani di trattamento, poi però ho pensato che non è il counselor che decide l’obiettivo del percorso ma che il suo scopo è quello di aiutare l’altro a definire da solo la meta che intende raggiungere... e allora ho deciso di provare solamente ad esserci e a creare la relazione, fornendo le condizioni necessarie e sufficienti al cambiamento e tutto quello che doveva accadere è semplicemente accaduto!

 

Lo spazio a nostra disposizione per gli incontri, si trova all’interno della struttura affittata dalla scuola per gestire le attività extra master: è un ambiente particolare, con soffitti bassi e poco luminoso ma forse proprio per questo contribuisce a creare quel clima raccolto, accogliente e riservato che facilita la disponibilità all’apertura e alla condivisione. Sono stati dieci incontri veramente intensi, fatti di passi avanti e anche di qualche passo indietro, fatti di rimandi e di riformulazioni, di tecniche apprese e del tentativo di utilizzarle nel modo più giusto per la mia “cliente”, fatti di emozione finalmente condivisa e di silenzi, della sua difficoltà dichiarata nel sentirsi completamente al centro dell’attenzione di qualcuno per paura di annoiarlo, trasformatasi con il passare delle settimane nel piacere di avere uno spazio ed un tempo solo per sé, nel quale essere libera di esprimersi e di parlare, finalmente anche con se stessa. E questo si è rivelato essere un punto fondamentale di tutto il nostro lavoro insieme.

 

Per la mia “cliente” è stato: “trovare finalmente il piacere di ascoltarmi, di capire i miei desideri, di mettermi per una volta in primo piano, di trovarmi in figura lasciando tutto il resto sullo sfondo! Ascoltarmi attivamente prestando attenzione ai miei sentimenti, alle emozioni, ai pensieri, al modo utilizzato per comunicare con l’altro, trasformare l’ascolto in accoglienza, fiducia, accettazione di me...” Questo è esattamente quanto emerso da lei nel nostro penultimo incontro, in un momento di riflessione sul percorso fatto e di gratificazione, che finalmente si è concessa, per la propria capacità di essere con se stessa e contemporaneamente di essere nella relazione piena con me.

Adesso che mi trovo qui a scrivere queste righe, con un attenzione ed un coinvolgimento diversi da quelli nei quali sono immersa durante i nostri incontri, mi rendo veramente conto di quanto il percorso fatto dalla mia cliente sia molto simile al mio, e di quanto questo abbia probabilmente facilitato il crearsi dell’alleanza e la mia capacità di provare empatia nei suoi confronti, pur permettendomi di non confondere mai il mio vissuto e la mia esperienza con i suoi e con la sua personalissima unicità, il mio “IO” con il suo “TU”, che sono riuscita a non incasellare in categorizzazioni ed interpretazioni.

Arrivata alla conclusione del nostro percorso di counseling mi lascio ancora assalire da mille interrogativi, questa volta di altro genere e tutti legati alla mia difficoltà nella gestione di un buon post-contatto...

 

Ho riletto tutto quello che mi sono scritta in questi mesi di incontri, ho ricordato l’accoglienza, il pre-contatto, la mia attenzione alla sua e alla mia comunicazione non verbale, al suo dialogo espresso a voce alta, fatto all’inizio solo di parole timorose del silenzio, e al mio dialogo interno, presentissimo in maniera quasi fastidiosa nel corso dei nostri primi appuntamenti e poi sempre più risorsa piuttosto che distrazione. Ho riflettuto sull’analisi della domanda, in principio limitata ad una questione di autostima relativa all’ambiente di lavoro ma poi rivelatasi qualcosa di molto più pregnante in tutti gli ambiti di vita... ho ripensato ai passi fatti per la costruzione dell’alleanza e alla relazione molto forte che in seguito si è creata tra noi, alla fiducia espressa in più occasioni, che è diventata tangibile quando la “cliente” si è aperta e ha cominciato realmente a parlarmi di sé. Allora ho spostato l’attenzione sul momento del contatto pieno, sul lavoro fatto per raggiungere la consapevolezza dei suoi killer dell’autostima, sulle tecniche un po’ più pratiche ed esperienziali utilizzate per esplorare il concetto di immagine di sé e l’attenzione portata su quanto le venisse abituale e naturale credere che gli altri avessero di lei la medesima opinione che lei per prima aveva di se stessa.

 

Ho ricordato alcuni degli esercizi fatti insieme e pensati durante un mio incontro di supervisione, in un momento di empasse in cui temevo di non riuscire più a tenere fede al nostro contratto iniziale e di aver bisogno quindi di ricontrattualizzare l’obiettivo: un grande foglio bianco, pennarelli di tutti i colori e la consegna di provare a raffigurare la propria immagine così come lei si vedeva, e poi la sua difficoltà e i 5 minuti di pausa silenziosa ed imbarazzata prima di prendere in mano un colore ed iniziare a riempire il foglio, la mia sorpresa nel vederla disegnare una finestra spalancata e non un corpo, vetri trasparenti al posto di vestiti, una maniglia inconsciamente (ma assolutamente in linea con il suo lavoro nel setting ed il suo malessere) disegnata al contario, verso l’esterno e non verso l’interno, come se fosse diritto di tutti aprire quella finestra a proprio piacimento e non fosse suo diritto tenerla chiusa per difendere la propria intimità, la propria individualità! E ripensandoci, quello che mi viene da sottolineare, arrivate quasi alla fine del percorso insieme, è la sua richiesta, giunta improvvisamente durante il nostro ultimo incontro, di poter avere delle forbici con le quali ritagliare le due ante in modo tale da potersi sentire libera di chiuderle in ogni momento e a propria discrezione.

 

E adesso mi trovo qui a dover affrontare il post-contatto, quel momento di scioglimento del legame, di bilancio del percorso fatto, di assimilazione nella funzione personalità, di ipotesi e verifiche sulla progettualità futura e... mi sento in difficoltà. Ho portato anche questa cosa in supervisione, la ritengo veramente un ottimo strumento di crescita personale e professionale per chi vuole essere un buon counselor, e proprio in questa sede mi sono interrogata sulla mia necessità di lasciare un segno in lei o comunque in generale di lasciare il segno, mi sono sentita accompagnata nell’esplorare il mio disagio, ho utilizzato questo momento di apprendimento, di verifica e sperimentazione che si sviluppa attraverso la relazione con un professionista esperto e mi sono fatta domande rispetto a quanto io abbia bisogno di ottenere un risultato per gratificare me e la mia autostima o se ci sia altro dietro questa mia fatica! Al termine di questa valutazione personale sono arrivata alla conclusione che ormai sono in grado davvero di farcela da sola e che anzi è proprio questo il messaggio che vorrei poter trasmettere anche alla mia “cliente” tramite un buon lavoro di chiusura: “adesso hai iniziato questo percorso e hai scoperto di avere tutti gli strumenti necessari per proseguire nel tuo cammino di approfondimento e consapevolezza, hai scoperto in questo setting protetto, in questa cornice sicura nella quale ti sei sentita accolta, che esiste la possibilità di essere te stessa al di là dei condizionamenti delle altre persone, hai sperimentato e hai dato l’avvio ad un processo che ora devi lasciar agire nel mondo... puoi farlo decidendo di proseguire ancora nel tuo cammino di conoscenza di te, puoi farlo guardando al futuro in una prospettiva di empowerment e di pensabilità positiva, che possa farti prefigurare come sarà quando sarai diventata ciò che realmente sei”.

 

Vorrei concludere il nostro percorso lavorando con lei sulla sua auto-efficacia e su come sia possibile riproporre all’esterno del setting quanto scoperto e sperimentato all’interno, proprio perché “la self-efficacy è costituita dall’insieme di convinzioni che l’individuo ha sulla propria capacità di far fronte a determinate situazioni. Queste convinzioni sono molto importanti in quanto sono responsabili della creazione di una rete di aspettative di self-efficacy per il futuro. Le aspettative di self-efficacy sono cruciali in quanto influenzano l’attivazione e la persistenza con cui viene messo in atto un determinato comportamento” (Giusti, 2002). Credo che, alla fine di questo nostro lavoro, riuscire ad essere consapevole dell’immagine di se stessa che più le piace e che vorrebbe riuscire ad avere, pulita da ogni distorsione derivante dall’esterno o dal suo auto-critico genitore normativo (che la vuole sempre perfetta, autonoma ed indipendente), immaginare come reale questo futuro che adesso si sta prefigurando, potendo portare l’attenzione sulle risorse interne ed esterne che potranno sostenerla e su quali azioni mettere in atto per proseguire nel proprio percorso, sarebbe un modo sufficientemente buono per concludere questo tratto di strada intrapreso insieme.

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