Famiglia, immagine ed altre prigioni (quarta parte)


famiglia numerosa“Alcuni autori come H.S. Sullivan, A. Freud e K. Horney ritengono che le immagini di sé che i bambini sviluppano durante la prima infanzia, in base alla percezione di una positiva o negativa relazione con le principali figure di accudimento e in base all’essersi sentiti o meno bambini degni d’amore e d’importanza, avranno un’influenza per tutta la vita. Essi sostengono che durante i primi sei anni di vita si formano le inclinazioni fondamentali all’amore o all’odio verso se stessi. Tali tendenze influenzeranno poi lo stile di vita dell’individuo, il suo modo di considerarsi e anche la sua autostima” (Giusti, Testi, 2006). In merito a quanto detto c’è un sentimento che i genitori non dovrebbero trascurare se si manifesta nei loro figli: la vergogna. La vergogna scaturisce laddove ci sono punti di conflitto tra l’individuo e la società, e infatti non amiamo ciò che ci fa vergognare di fronte agli altri, lo nascondiamo perché temiamo di essere disprezzati e respinti... e chi si vergogna di se stesso evidentemente non si ama.

 

 

Esiste poi uno specifico carattere corporeo della vergogna: spesso il corpo viene particolarmente chiamato in causa da questo stato d’animo e ne diventa il supporto espressivo. Ci vergogniamo di ciò che non amiamo in noi, le gambe grosse, il fondo schiena rotondetto, le spalle curve o i pettorali poco sviluppati, sempre e comunque una parte per il tutto, il disprezzo per un singolo aspetto di noi diventa spesso il disprezzo per tutto il nostro essere e in questo modo la parte nascosta non riesce mai ad esprimere quello che è il suo potenziale, la sua capacità trasformativa (Schellenbaum, 1991). La vergogna ci deruba del nostro potere e della chiarezza necessaria per fronteggiare l’incertezza della vita, ci priva dell’abilità di impegnarci a vivere completamente, coraggiosamente, gioiosamente, è uno stato in cui sentiamo che dentro o fuori di noi c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato, è una profonda sensazione interiore di umiliazione, non sempre legata a qualcosa di specifico ma relativa al nostro proprio essere. Vergognarsi del proprio corpo, della sua forma, della sua goffaggine o rigidità di movimento è un modo piuttosto immediato attraverso cui si esprime la vergogna di sé, la non accettazione, l'autogiudizio e l'autocondanna. Si tratta infatti di un sentimento che riguarda contemporaneamente la sfera della massima intimità dell'individuo e della sua interiorità, il senso di sé, le sofferenze e i disagi ad esso connessi, ed inoltre la dimensione relazionale e sociale, in quanto concerne i vissuti relativi al sentirsi visti dall'altro.

 

La vergogna quindi ha a che fare particolarmente con l'identità, con l'immagine di sé, con il volersi diversi, con quegli aspetti “difettosi” di se stessi in cui è riposta, consciamente o inconsciamente, la propria identità. Questo svelamento della propria identità (e nel caso della vergogna è uno svelamento doloroso), di ciò che si sente di essere, avviene inevitabilmente in un contesto relazionale, passa cioè attraverso lo sguardo dell'altro. Quindi "mi vedo" (e mi vedo in quel determinato modo, che suscita in me un sentimento preciso di accettazione o rifiuto) guardandomi attraverso l'occhio altrui, cioè "mi vedo per come mi sento visto", e viceversa, assurdamente, continuo a sentirmi visto per come mi vedo... un cane che si morde la coda! C’è quindi da domandarsi: perché non ci si sente bene nel proprio corpo? L’immagine che abbiamo di noi da dove viene? La corrispondenza corpo-identità può essere molto pericolosa se è la sola a connotare l’identità, perché le forme fisiche diventano per noi stessi e per gli altri, indicatore di una socializzazione non perfettamente riuscita... se non ci si con-forma alle aspettative, se non si riesce ad uni-formarsi ad esse, il nostro concetto di noi stessi risente del grado e del modo in cui abbiamo più o meno corrisposto alle richieste. La società attuale rivolge sempre maggior attenzione al corpo, alla sua immagine e alle diverse rappresentazioni della corporeità.

 

La realtà mediatica e dell’immagine, nella quale siamo immersi, contribuisce ad enfatizzare tale fenomeno fino a rendere il corpo un’icona che si impone su tutte le altre caratteristiche psicologiche e di personalità del soggetto a cui tale immagine viene fatta riferire. Il corpo perfetto diventa quindi quell’ideale di bellezza che apre le porte al poter essere, al poter essere felici, amati, realizzati e si contrappone al corpo rotondo e morbido, al corpo “grasso”, considerato sempre più spesso simbolo dell’arrendevolezza, della frustrazione, della scarsa volontà. Convogliare tutte le attenzioni e le energie su aspetti legati alla nostra esteriorità può però portare ad impedirci un contatto profondo con noi stessi... ma cosa possiamo fare quando la nostra immagine ci rende così insicuri? Come possiamo riuscire ad accettare un’imperfezione quando la consideriamo la causa primaria della nostra infelicità? L’immagine diviene un idolo che richiede in sacrificio i sentimenti umani ed il corpo diventa uno strumento della volontà, al servizio dell'immagine stessa.

“Quando mancano le parole ricorrete al corpo, permettete che i suoi comportamenti, le sue coazioni e le sue urgenze dicano che cosa sentite e di che cosa avete bisogno, spieghino l’inesplicabile (...)come se non vi fossero parole, come se non vi fossero mai state realmente parole, per descrivere come ci si sente” (Knapp, 2003).

Quando non ci sono parole è il corpo che parla, che mostra in ogni modo le nostre paure, le nostre difficoltà, la nostra vergogna, il nostro dolore... diventa veicolo, forma e mezzo espressivo di una sofferenza che la nostra psiche non può sostenere. Il corpo ha memoria, il corpo sente, il corpo comunica, e lo fa comunque, che lo si voglia o no, perché è in esso che si deposita e si cristallizza la cultura che una volta “incorporata” diventa la nostra natura. “Contini legge il corpo come testo e narrazione: recettore, su cui la vita scrive i suoi segni e lascia tracce di memoria, ma anche narrante di sé, dei propri modi, unici e originali, di porsi in relazione con il mondo” (Piroli, Montanari, Iannazzo, 2010). Del resto sono ormai numerosi gli studi che sostengono che l’immagine corporea influenza la percezione che si ha del mondo e l’interazione che creiamo con gli altri e che tale immagine, molto spesso falsata, è determinata da una varietà di fattori ma soprattutto dall’impulso a cercare di piacere. Come ci suggeriscono Carmine Piroli e Claudia Montanari, “un concetto molto importante per quel che riguarda la coscienza del proprio corpo è l’immagine corporea, essa è il risultato dell’integrazione di più componenti, sia psicologiche che corporee, e a sua volta influenza in maniera significativa il corpo reale, poiché, tramite segnali neuronali, contribuisce a plasmare il corpo adeguandolo alla propria immagine” (Piroli, Montanari, Iannazzo, 2010).

 

Il modo in cui rappresentiamo soggettivamente il nostro corpo può arrivare a condizionare e dirigere il nostro progetto di vita, può influenzare le relazioni, può determinare il tipo di difficoltà, fisiche o psicologiche verso cui saremo più tendenzialmente portati. Il corpo esprime una densità di significati anche o non solo propriamente somatici, l’immagine corporea che ognuno di noi ha di se stesso va oltre la realtà fisica del corpo che possediamo (peso o forme corporee quantificate in chili, taglie o centimetri di troppo), essa ha a che fare con il nostro personale modo di sentire e percepire noi stessi come persone e come corpo in relazione con gli altri... l’immagine del corpo è l’immagine che viene pensata, che è legata al nostro immaginario, a quello che pensiamo di noi stessi... quindi è legata alla nostra storia personale e credo di non sbagliarmi affermando che sia legata anche alla relazione con i nostri genitori nei primi anni di vita, agli scambi affettivi avuti con loro, all’esperienza che abbiano fatto del contatto con un altro individuo e che ci ha strutturato, anche fisicamente. Il guardarsi allo specchio, alla ricerca di un personale apprezzamento, vuole sostituire lo sguardo amorevole di chi amiamo... allo specchio affidiamo un’esigenza di riconoscimento e quando lo specchio rappresenta, in qualche modo, un sostituto materno, la conseguenza è che dipendiamo esageratamente dal giudizio degli altri e cerchiamo di piacere, di sedurre, perché un apprezzamento può farci dimenticare per un attimo il senso di vuoto che proviamo... anche se il dubbio subito si riaffaccia, perché il destino di ogni informazione nuova che si presenta alla nostra attenzione è pesantemente condizionato dalle credenze che abbiamo acquisito nel tempo.

 

E allora lo specchio e la bilancia diventano strumenti per rispondere alla domanda “Chi sono io? Mi merito il tuo amore?” e tanto è più forte il senso di estraneità nei confronti del proprio corpo e rispetto a ciò che si vorrebbe essere, tanto più si cercherà di modificarlo, spesso non arrivando mai a raggiungere l’obiettivo desiderato e alimentando piuttosto un costante senso di insoddisfazione e di disistima. Se da una parte, quindi, si affida alla forma estetica del corpo quella perfezione e quella sicurezza che non trova riscontro dentro di noi, dall’altra, l’immagine corporea, non raggiungendo mai l’immagine idealizzata, ripropone in superficie quel sentimento di imperfezione che ci portiamo dentro! Così accade che, nel confronto con lo specchio, anziché incontrare uno sguardo benevolo e di accettazione, incontriamo uno sguardo critico e disprezzante: lo specchio ci rimanda sempre un’immagine imperfetta, eccessiva, sproporzionata, inadeguata... Scrive Umberto Galimberti: “ A nessuno è concessa l’immagine fedele del proprio corpo La mia vita non può esplorare ciò che si nasconde dietro le mie spalle, e soprattutto non può vedere quel viso che sono e che mi esprime. Anche con lo specchio non raggiungo lo scopo, perché l’immagine riflessa non è sovrapponibile ma simmetrica, la destra, cioè, diventa la sinistra, e siccome le due parti non sono perfettamente identiche, l’espressione che vedo riflessa non è la mia espressione” (Galimberti, 1999). La propria immagine infatti è qualcosa che il corpo costruisce, anche se in realtà ogni stato d’animo momentaneo, ogni moto interno, cambia almeno un poco, l’immagine che abbiamo del nostro corpo. Per questo ogni tanto riusciamo a “sentirci leggeri” nonostante tutto, e non si tratta di un modo di dire ma di un modo di essere, in quel rapporto dinamico tra il proprio corpo e il mondo, che l’immagine del corpo segue sempre fedelmente!

 

Se avere un corpo significa essere visibili ed essere guardati, l’idea di non essere soltanto un corpo reclama che questo sguardo riconosca la realtà della persona tutta intera e non si limiti soltanto alla sua immagine corporea! E se prima o poi anche nei deserti più aridi, la pioggia arriva a far germogliare i semi rimasti inerti per anni, allora la forza trasformativa intrinseca alla natura corporea, dialoghi e parole rimasti custoditi nelle articolazioni, nei muscoli e nelle ossa, potranno iniziare ad esprimersi... se solo ci diamo il tempo di ascoltare! Carl Rogers non parla forse di “tendenza attualizzante””? E tutti noi non impariamo proprio nei corsi di Counseling il concetto di “fiducia nel processo”?

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