Comunità Ecclesiale e Disagio Relazionale


comunita_ecclesialeL’essere umano, in quanto capace di interrogarsi sulla propria esistenza, ha una propria dimensione spirituale: oltre alla percezione della realtà oggettiva circostante, ha facoltà di definirsi come soggetto, osservare la propria realtà interiore, interagire tra i diversi livelli del suo essere, scegliere con consapevolezza, attribuirsi un significato, e decidere il proprio percorso di vita.

Nel caso di comunità ecclesiali a matrice cristiana, in particolare, il disagio relazionale dell’individuo è a volte vissuto come elemento di contraddizione, da rimuovere e risolvere il più in fretta possibile, e non come opportunità di crescita e consapevolezza. In questo caso, l’intervento comunitario tende a essere fortemente direttivo, normativo e autorevole: di assoluzione, avvertimento, approvazione o disapprovazione, con l’obiettivo di cambiare e uniformare la persona.

 

In aggiunta, la coscienza comunitaria potrebbe interpretare le il disagio del singolo piuttosto come segno di insofferenza, disubbidienza o mancata sottomissione. In aggiunta, questa paradossale mancanza di empatia da parte del sistema comunitario produce nel singolo un disorientamento relazionale e una destabilizzazione nell’equilibrio 'fede - valori – affetti'.

Tuttavia è proprio nel testo biblico, a cui la comunità ecclesiale è chiamata a fare riferimento, che troviamo radicato il significato di alleviare la sofferenza, contenere un disagio, recare consolazione, incoraggiare e sostenere. La testimonianza biblica non evita la realtà complessa dell’essere umano: ne condivide profondamente la storia, le perplessità, le incongruenze, la ricerca di significato e di scopo, ma indica anche speranza e possibilità di riscatto.

L’apostolo Paolo presenta appunto ai suoi uditori questa più profonda modalità di relazione partecipativa e percettiva:

“Ateniesi, io vi trovo in ogni cosa fin troppo religiosi. Poiché passando in rassegna e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato un altare sul quale era scritto: ‘Al Dio sconosciuto.. Quello dunque che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio” (Atti 17: 21-23).

Questa considerazione ci riporta all’empatia: sentirmi nella persona dell’altro.

È proprio nel Cristo sofferente che troviamo il più alto esempio di empatia e di identificazione. Il profeta Isaia lo descrive profeticamente oltre 700 anni prima della sua nascita, dichiarando così l’universalità del suo sacrificio espiatorio, nel brano più drammatico dell’intera narrazione biblica:

“Disprezzato e rigettato dagli uomini, uomo di dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si nasconde la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo stima alcuna. Eppure egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori; noi però lo ritenevamo colpito, percosso da Dio e umiliato. Ma egli è stato trafitto per le nostre trasgressioni, schiacciato per le nostre iniquità; il castigo per cui abbiamo la pace è su di lui, e per le sue lividure noi siamo stati guariti: Noi tutti come pecore eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via, e l’Eterno ha fatto cadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltratto e umiliato non aperse la bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse la bocca” (Isaia 53:3-7).

Isaia definisce inoltre Cristo come ‘Counselor’:

“Poiché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato. Sulle sue spalle riposerà l’impero, e sarà chiamato Counselor ammirabile” (Isaia 9:6). (La versione italiana della Bibbia traduce consigliere, quella inglese, counselor).

La mission di Cristo come Counselor è nuovamente profetizzata nel brano di Isaia 61:1-3. Cristo stesso la conferma all’inizio del suo ministero (Luca 4:16-21) e ne indica anche la continuazione: “E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore (gr. Parakletos, tradotto come: counselor, soccorritore, consolatore) che rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità…” (Giovanni 14:16, 17, 26).

Le qualità dell’empatia e dell’atteggiamento non giudicante erano presenti nel continuo interagire di Cristo con le persone, come nell’episodio della donna sorpresa dalla gente in adulterio:

«Gesù dunque, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: “Donna, dove sono quelli che ti accusano? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore.” Gesù allora le disse: “Neppure io ti condanno; và e non peccare più”» (Giovanni 8:7-11).

La parola tradotta come ‘peccato’, in lingua greca (hamartia, ἁμαρτία) è fondata sul concetto di ‘mancare l’obiettivo’. Il significato di 'peccato' dunque non è esclusivamente 'inadempienza' o 'trasgressione', ma anche perdere riferimento, alienazione, allontanamento, smarrimento, frammentazione, scissione, conflittualità.

Le persone in una comunità ecclesiale si percepiscono spesso ‘in colpa’, non conseguente ad un atto specifico ma come presupposto debilitante, rispetto a ciò che ‘dovrebbero o potrebbero essere’. Questa stesse persone investiranno poi la propria colpa interiore in una situazione effettiva nel tentativo di giustificarla, e 'puniranno' altri e si 'autopuniranno' per provare ad espiarla, in un circolo ossessivo senza fine.

È evidente che, in un tale contesto, la relazione d’aiuto è non solo auspicabile ma indispensabile: costruire una spazio protetto relazionale dove accogliere la persona oppressa, sfinita, demotivata, isolata, per credere che è ancora possibile ricostruire dalle macerie della propria vita, della famiglia e degli affetti.

“Essi ricostruiranno le antiche rovine rialzeranno i luoghi desolati nel passato, restaureranno le città desolate, devastate da molte generazioni” (Isaia 61:4).

In definitiva, la mission del counselor cristiano, sulle orme di quella del Cristo Counselor, deve potersi estendere oltre i limiti del disagio del singolo e giungere al cuore delle relazioni della comunità intera. Il problema del singolo è in realtà quello di tutta la comunità che non può quindi sottrarsi a una revisione onesta e profonda sulla qualità delle relazioni che produce:

“E se un membro soffre, tutte le membra soffrono; mentre se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono insieme” (1 Corinzi 12:26)…perché siamo membra gli uni degli altri” (Efesini 5:25)…affinché, per mezzo della consolazione con cui noi stessi siamo da Dio consolati, possiamo consolare coloro che si trovano in qualsiasi afflizione” (2 Corinzi 1:3,4).

 

Maurizio Secondi

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