Qualsiasi inziativa formativa (sia in senso lato educativa, oppure istruzionale, ovvero di relazione d'aiuto) parte dall'analisi/conoscenza dei soggetti a cui ci si rivolge e con i quali ci si confronta e/o ci si accompagna.
Stabilire le caratteristiche dei soggetti con i quali ci si accompagna per un breve o lungo lasso di tempo (tanto quanto una ralazione di counseling può richiedere) è fondamentale per definire e pianificare una esperienza che sia significante e adeguata ai bisogni e alle esigenze del cliente (validità/validazione del contratto e responsività del counselor).
In generale gli adolescenti sono considerati persone in difficoltà nel processo individuale di diventare soggetti adulti e tutto ciò a prescindere dalle diverse problematiche con le quali ciascun adolescente va facendo i conti. E le difficoltà sono decisamente differenziate così come le descrizioni e le modalità agite di adolescenza, almeno se si sta alla classificazione proposta da R. Canestrari (1984): adolescenza adeguata, adolescenza ritardata, adolescenza prolungata, adolescenza sacrificata, adolescenza dissociale e adolescenza tossicomane.
Qualsiasi iniziativa formativa (sia in senso lato educativa, oppure istruzionale, ovvero di relazione d’aiuto) parte dall’analisi/conoscenza dei soggetti a cui ci si rivolge e con i quali ci si confronta e/o ci si accompagna e tale procedimento avviene per rispettare il principio fondamentale di pertinenza. Per stare nel campo della dimensione e dell’azione educativa affinché ogni intervento sia efficace è necessario avere un quadro sufficientemente adeguato della storia del soggetto (cfr. R. Viganò, 1995 ). In caso contrario si riscontrano dei limiti nella elaborazione di prospettive e proposte d’intervento valide o, in altri termini, non sussiste una corrispondenza tra l’obiettivo educativo e i bisogni dei soggetti ai quali si intende indirizzare l’intervento: siamo scaduti qui in una condizione di non pertinenza, e tutto ciò appare molto più generalizzato, in modo particolare nelle esperienze scolastiche, di quanto non si creda. Queste sottolineature valgono comunque in ogni azione orientata al cambiamento rimandando efficacemente a tutto il vasto orizzonte delle relazioni d’aiuto pur diversamente declinate.
Stabilire le caratteristiche dei soggetti con i quali ci si accompagna per un breve o lungo lasso di tempo (tanto quanto una relazione di counseling richiede) è fondamentale per definire e pianificare una esperienza che sia significante e adeguata ai loro bisogni e alle loro esigenze (validità/validazione del contratto e responsività del conselor).
Si è introdotto nel titolo il termine difficoltà per indicare la caratteristica dominante del vivere dei soggetti in evoluzione ed ai quali intendiamo riferirci: cerchiamo in prima battuta di precisare meglio cosa intendiamo sottolineare attraverso esempi sufficientemente indicativi.
In termini negativi lo sviluppo psicologico dei ragazzi a rischio può assumere due forme: la prima è una situazione in cui l’adolescente vive la crisi senza via d’uscita. Sono importanti le riflessioni e le indicazioni di E.H. Erikson (1974) che mette in evidenza come in questa fase evolutiva, per una serie di ragioni e di cambiamenti connessi alla rapida crescita, allo sviluppo della sessualità, alla modificazione dei rapporti interpersonali e delle aspettative sociali, poiché tutti questi elementi di cambiamento avvengono in un periodo relativamente breve della vita del soggetto, si determina una crisi di identità, una fase in cui l’identità non è costante, organizzata, ma diffusa , discontinua. Questa crisi, legata alla ricerca di un nuovo vissuto di continuità e unità, deve tenere conto dei limiti e delle esigenze non più solo della famiglia, ma anche della società. È proprio in questo periodo di crisi che, con maggior rischio, può iniziare un’organizzazione del Sé e dell’identità in termini devianti. L’adolescente potrebbe per esempio esprimere la sua perdita del senso di identità, i suoi conflitti, attraverso quella che Erikson chiama “la scelta d’identità negativa”, cioè un’identità perversamente fondata su tutte quelle identificazioni e quei ruoli che, in certi stadi critici dello sviluppo, erano stati loro presentati come indesiderabili o pericolosi. La storia di questa scelta rivela un complesso di circostanze in cui è più facile per il paziente trarre un senso d’identità dalla totale identificazione con ciò che egli non dovrebbe assolutamente essere, piuttosto che lottare per conquistare un sentimento di realtà in ruoli accettabili, ma irraggiungibili con i suoi mezzi interiori. La seconda è la chiusura precoce dell’adolescenza: davanti all’angoscia prodotta dalla crisi adolescenziale, alcuni ragazzi tentano di bloccare il processo evolutivo, mentre altri, viceversa, lo accelerano esasperatamente chiudendolo precocemente.
In base a queste considerazioni il comportamento deviante o problematico è cosa diversa da quello più propriamente antisociale. Nel primo caso si hanno comportamenti inusuali, inattesi, bizzarri che l’adolescente può mettere in atto nel momento in cui entra in ruoli sociali che, fino a qualche tempo prima, non gli erano consueti. Manifestazioni di questo genere possono essere vissute all’interno dell’ambiente di vita dell’adolescente come vere e proprie forme di devianza e come attacco alle regole del vivere civile e possono essere la causa scatenante di successivi più gravi disadattamenti. Nel secondo caso si tratta di condotte aggressive rivolte contro le persone e le cose, talvolta esercitate all’interno di bande giovanili. Per molti adolescenti la comparsa di un comportamento antisociale costituisce di solito un episodio transitorio, mentre per altri può essere la prima fase di un processo destinato a concludersi con la stabilizzazione della devianza. (cfr.M. T. Bassa Poropat & F. Lauria, 1988)
Molti autori hanno cercato di fornire una lettura e una spiegazione dei comportamenti disadattivi degli adolescenti attraverso l’individuazione di caratteristiche particolari relative all’ambiente di appartenenza richiamandosi alle vecchie lezioni di R. K. Merton e della scuola di Chicago facendo risalire il disturbo della condotta soprattutto all’ambiente sociale deprivato. Altri autori particolarmente attenti all’ambiente familiare, alle sue dinamiche e alle sue figure parentali cercano di fornire una lettura e una spiegazione della devianza minorile attraverso l’individuazione di caratteristiche particolari relative all’ambiente familiare, alle sue dinamiche e alle sue figure parentali: richiamando la responsabilità delle pratiche sociali famigliari, di fronte a situazioni familiari frustranti i minori, secondo questo particolare angolo prospettico, possono reagire con i comportamenti più diversi ma le reazioni più frequenti sono caratterizzate da comportamenti aggressivi e oppositivi, difficili da gestire. ( cfr. Pilleri Senatore R.-Tondo L.- Silvetti F, 1995). Moltissime ricerche si sono occupate di analizzare le corrispondenza esistente tra carenze affettive sia materne (Bowlby, 1967;1975) sia paterne e patologie di integrazione individuale e adattamento alla realtà: sono aspetti decisamente utili per individuare elementi rilevanti nella vita del soggetto, ma non possono essere generalizzati.
Secondo E. Scabini (1987) “Le ricerche hanno, infatti, mostrato che la presenza di un supporto e di una comunicazione adeguata nella relazione genitori-figli, oltre che di una buona soddisfazione familiare, sono fattori che favoriscono una crescita adeguata per l’adolescente”.
I comportamenti problematici derivano da condizioni educative negative e pertanto non adeguate alla necessità della personale formazione. Coloro che li assumono, sono ragazzi che soffrono di limitazioni materiali estremamente gravi, o sono ragazzi costretti a vivere in ambienti negativi per la loro incapacità di svolgere una sufficiente azione educativa.
E. H. Erikson (1974)attribuisce un’importanza decisiva, per la formazione di una stabile e sana identità personale, al clima affettivo accogliente, caloroso e appagante, che s’instaura nella relazione primaria tra madre e figlio poggiante sul reciproco riconoscimento e sulla vicendevole soddisfazione dei bisogni. I ragazzi che provengono da una famiglia carente o disgregata presentano lacune sia nella sfera emotiva, dove la spontaneità e la capacità empatica sono molto ridotte, sia nell’uso della comunicazione linguistica (P. Freire, C. Freinet, B. Ciari, L. Milani, ed altri tra psichiatri, sociologi, educatori, pedagogisti, hanno indagato il problema dell’emarginazione mettendo soprattutto in evidenza che “la difesa della situazione sociale di divisione e dei processi di emarginazione si affida a un’azione educativa che impone nella scuola il codice elaborato, codice socio-linguistico delle classi medie, senza tener conto della presenza di ragazzi che sono impreparati al suo apprendimento, senza apprestare le modalità didattiche necessarie a tal fine, e senza tener conto delle implicazioni sociali che tale violenza linguistica comporta , in tal senso si muove la ricerca di B. Bernstein (1969), cercando di analizzare la correlazione fra classi sociali e usi linguistici nella società inglese degli anni ’60, introducendo la teoria dei differenti “codici” sociolinguistici: codice ristretto utilizzato dal ceto operaio e codice elaborato fatto proprio dal ceto medio), sia nella sfera intellettiva, in cui si riscontra una netta predilezione del pensiero concreto a scapito della concettualizzazione astratta, di tipo ipotetico-deduttivo (cfr. T. Bandini, U. Gatti 1972).
Per quanto concerne, invece, i casi di disgregazione dei legami coniugali risulta che siano meno negativi per i figli rispetto ai conflitti e alle tensioni provocati dalla compresenza irrimediabilmente deteriorata delle figure parentali (cfr. F. Poletti, 1988). Riguardo ai rapporti affettivi all’interno della famiglia, sono stati individuati vari aspetti rilevanti e significativi come il rifiuto affettivo o la trascuratezza da parte dei genitori, la cui incidenza sarebbe ancora più forte della loro assenza o separazione. In certi casi di privazioni emozionali nasce nel bambino prima, e nel ragazzo poi, la percezione e la consapevolezza di essere poco considerato e amato, tutti aspetti facilmente correlati con aggressività, disadattamento, indifferenza affettiva, antisocialità
In tutti questi casi, infatti, il ragazzo che è sensibilissimo nel cogliere il senso vero di certi comportamenti o di certi atteggiamenti di chi vive attorno a lui, non riesce a trarre un’adeguata soddisfazione dei suoi bisogni materiali e psico-affettivi e perciò è impedito nella sua normale evoluzione.
P. Bertolini ritiene che “…certe iniziali condotte aggressive, certe fissazioni a comportamenti egocentrici ed egoistici, talune forme di passività o di profonda sfiducia proprie di questi soggetti, sono l’effetto immediato di quelle esperienze negative e sono l’espressione descrittiva del loro stato di difficoltà educativa” (P. Bertolini, 1965).
Il mancato corso normale della educazione di questi ragazzi produce inizialmente stati d’ansia, senso di delusione, senso di esclusione, atteggiamento svalutativo, in un secondo momento l’atteggiamento interno di questi ragazzi sfocia in vere e proprie condotte irregolari, dalle improvvise gravi difficoltà scolastiche all’intolleranza nei confronti di frustrazioni specie di carattere affettivo, dalle fughe da casa ai piccoli furti, dall’incapacità di stabilire normali rapporti sociali alle cariche aggressive dirette contro i vari componenti del nucleo familiare o contro se stessi Il disagio esistenziale, la radicale insofferenza nei confronti di sé e del mondo spesso si rivela attraverso comportamenti autoaggressivi, negli attacchi al corpo perpetrati tramite condotte anoressiche o bulimiche, all’integrità fisica e sociale minacciata da comportamenti a rischio, abuso di droghe e di velocità, (cfr. P. Crepet, 1993).
In questo senso, dunque, si smentisce la convinzione che il comportamento antisociale di un minorenne sia dovuto a malvagità da punire, convinzione che sta alla base di quella tendenza comune ad estendere a tutta la persona - come pare usanza linguistica comune a tutta la tradizione italiana in cui la parola delinquenza pare evocare il delinquente e non la categoria d’azione - l’etichetta di ciò che è solo un comportamento sistematico o occasionale e trascura il fatto che l’esistenza di questi ragazzi è costellata da ostacoli e difficoltà.
Così l’uso dell’espressione difficoltà a diventare soggetto adulto pare giustificato in quanto si tratta di soggetti con i quali, nella relazione d’aiuto, bisogna elaborare le strategie più idonee al superamento dei molti ostacoli che incontrano nel personale processo di definizione di sé e del positivo inserimento nella società.
Bernstein B., Classi sociali e sviluppo linguistico: una teoria dell’apprendimento sociale in E. Cerquetti (a cura di), Sociologia dell’educazione, Milano, Angeli, 1969.
Bertolini P. Per una pedagogia del ragazzo difficile, Malipiero, Bologna, 1965
Scabini E., Funzionamento familiare e fattori di rischio in famiglie con adolescenti, in Adamo S. M. G. – Valerio P. (a cura di) Fattori di rischio psicosociale in adolescenza Quaderni del Progetto “Spazio Adolescenti” Regione Campania, Collana diretta da S. M. G. Adamo, R. Blasi, P. Valerio, La Città del Sole, Napoli, 1987.
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