CHI CI SALVA DAL SALVATORE? Ordini e comandi interni dell’helper parassita

Inviato da Nuccio Salis

manipolazione mentale

Durante i miei laboratori esperienziali di counseling a orientamento analitico transazionale, la prima sollecitazione che invio ai frequentanti consiste nell’esplorare e mettersi in contatto con quella parte di loro che ha spinto ciascuno a scegliere la professione di aiuto.

Riconoscere e far emergere quella voce interiore che ci ha spinti ad occuparci della persona è un compito da cui nessun operatore dell’ambito in oggetto si può sottrarre.

È infatti essenziale che ognuno si confronti con questa dimensione del Sé che sospinge verso l’attuazione di azioni solidali ed altruiste, dal momento che l’efficacia delle stesse può svilupparsi soltanto laddove abita anche la consapevolezza, condizione irrinunciabile per poter cogliere la vera origine di tale propensione.

 

Si sarebbe infatti portati a pensare, per apparenza o per comoda semplificazione stereotipa, che chi sceglie l’attività del sostegno e dell’affiancamento alla persona sia anche dotato internamente di qualità e valori che ne nobilitano ogni aspetto personologico, percependo il soggetto in questione dentro la lente distorta del classico effetto alone.

Tuttavia, la complessità che si cela dietro certi percorsi si estende ben oltre le stucchevoli considerazioni buoniste, sia che provengano dai giudizi sociali che dal vissuto in seno all’individuo che assume una decisione di tale portata.

Secondo i comuni canoni di lettura, non solo la persona con handicap è vista sempre come tenera e inoffensiva, ma tale valutazione si applica anche all’operatore che se ne prende cura, così da creare una gestalt totalizzante che riduce ed approssima la capacità di crearsi un’idea autonoma sull’altro da noi.

Al lavoratore socioeducativo spetta l’impegno di affrancarsi da tale proiezione, e di scoprire se la sua opera risponde ad istanze propriamente umanistiche e del tutto spontanee, o se invece è il frutto di decisioni maturate in funzione di spinte copionali e drammatiche, per aderire al personaggio interiore che ciascuno di noi si crea qualora evitasse di fare i conti con i condizionamenti indottrinati fin dalla nostra prima infanzia, a causa della generale incapacità di ogni ambiente affettivo ed educativo (primario e secondario) di provvedere adeguatamente al riconoscimento e al soddisfacimento dei bisogni autentici di un bambino.

Se infatti la professione di aiuto è un abito indossato in corrispondenza di comandamenti interni che sfuggono alla coscienza, a sensi di colpa che guidano formazioni reattive, ad epiloghi di insuccesso e di catastrofe già prospettati nel segreto delle proprie trame autobiografiche (sconosciute finanche a noi stessi), a progetti inconsapevoli di rivalsa o atti dimostrativi verso certi fantasmi interiori; allora l’assunzione di una tale responsabilità dovrebbe essere accuratamente riesaminata da chi si prodiga nel contesto in esame.

La mancanza di un’attitudine realmente libera ed ispirata da veri principi etici maturati in autonomia, costituirebbe un reale rischio a doppia valenza, in quanto andrebbe a pregiudicare sia l’equilibrio psico-emotivo dell’operatore, sia degli utenti ai quali egli indirizza il proprio intervento. È difatti cronaca contemporanea, le perpetue segnalazioni in merito ad episodi di inaudita violenza che si continuano ad attuare verso disabili, anziani, categorie sociali particolarmente vulnerabili che non possono difendersi in modo idoneo, subendo ogni genere di minacce e umiliazioni proprio da parte di chi è investito di un compito di tutela e promozione di condizioni di maggiore benessere verso i più deboli.

Tale fenomeno, peraltro, viene recepito con particolare e notevole shock dalla maggioranza degli umani, in quanto contribuisce a rovesciare una serie di certezze, aspettative, concetti e senso della realtà, sostanziati da credenze collettive sufficientemente stabili e permanenti.

Le vicende esposte dai mass media ci mostrano assistenti domiciliari che percuotono donne anziane, infermiere killer, insegnanti di scuola dell’infanzia che schiaffeggiano i bambini, urlando loro contro e insultandoli. Insomma una galleria degli orrori che mette in evidenza come ci sia costretti a fare i conti con quella discrepanza che rompe ogni certezza ed infrange la sala degli specchi dentro la quale siamo immersi.

Tutto ciò ci obbliga anche ad esigere che ci si prenda cura della formazione e della qualità del servizio professionale che ciascuno è chiamato ad erogare in questo difficile campo.

Insomma, se dentro queste persone co-esisteva fin dall’origine, al loro interno, un mostro pronto a schiudere l’uovo e ad agire di conseguenza, forse potrebbe anche essere accaduto qualcosa durante il percorso. Non è infrequente imbattersi nella mortificante esperienza del verificare quale immane distanza esista fra teoria e pratica del lavoro. La motivazione iniziale potrebbe progressivamente deteriorarsi per via della constatazione della incompatibilità fra aspettative idealistiche e una realtà dominata da fattori ostacolanti che molto spesso umiliano ed appesantiscano il lavoro sociale, rendendo pericolosamente reattivi. Le idilliache prospettive che accompagnano gli studi ed i neofiti della professione, presto urtano contro una realtà composta da eventi quali: inadeguatezza dei mezzi attraverso cui si vorrebbe avvalorare le proprie competenze, sabotaggi e scorrettezze da parte di colleghi, gestione politica inappropriata della figura professionale, rivendicazioni sindacali mancate, insufficienza di riconoscimenti, carico eccessivo di prestazioni, richieste non adatte alla propria qualifica, ingratitudine e svalutazioni da parte degli stessi utenti.

Naturalmente tutto ciò non può essere elevato a giustificazione sotto il profilo della responsabilità giuridica, deve piuttosto in ciascun caso essere interpretato ed accolto nelle opportune sedi della formazione e del counseling del lavoro socioeducativo.

Personalmente, ciò che propongo al personale dell’ambito, consiste nel provocare l’eventuale reperimento ed emersione di quell’ambiguo personaggio interiore che risponde al nome di SALVATORE. Non si tratta certamente di un nome di persona, quanto di un mito che qualcuno potrebbe aver fatto proprio, condizionando le modalità e l’approccio coi quali condurre la propria attività di servizio alla persona.

Il SALVATORE è un personaggio piuttosto subdolo, forse il peggiore e più inquietante parassita della nostra struttura psichica e identitaria. Egli, infatti, si avvale di una molteplicità di valenze che può renderlo all’apparenza innocuo, se non addirittura una figura positiva in quanto, per l’appunto, salvifica. Insidioso e sabotatore, egli può essere in grado di pilotare le scelte di chi si adegua ai suoi imperiosi comandi, conservando la convinzione che si stia decidendo scientemente, con deliberata capacità pianificatoria. Il SALVATORE si maschera di luce e si ammanta come un agnello, e quando la persona che lo ospita ne obbedisce ai comandi narrativi, egli sta già compiendo il suo scopo secondo le regole del suo gioco. È molto importante stanarlo, interrogarlo e riappropriarsi della propria capacità trasformativa, risvegliando una coscienza che digerisce e ribalta ogni eventuale infausto pronostico.

Il SALVATORE possiede un linguaggio che potrebbe non esplicitare, e una forma mentis che può essere comunque indagata e riposta su un piano di consapevolezza dialettica da parte dello stesso portatore che in tale personaggio si è identificato, ed a cui a questo punto spetta la disincarnazione, col fine di recuperare e rigenerare il Sé autentico.

Ho personalmente individuato 5 diverse possibili declinazioni del SALVATORE con 3 rispettivi elementi strutturali che ne costituiscono l’ossatura, e che ho chiamato ‘Frase’, ‘Messaggio implicito’ e ‘Comportamento’.

Elenco e distinguo nello specifico tali tipologie:

 

FRASE

Lo farò al posto tuo

MESSAGGIO IMPLICITO

‘Non sei capace’

COMPORTAMENTO

MANIPOLAZIONE

 

 

FRASE

Hai visto? Se non ci fossi io ad aiutarti

MESSAGGIO IMPLICITO

‘Senza di me sei una nullità’

COMPORTAMENTO

DIPENDENZA

 

 

FRASE

Ti risolverò io la situazione

MESSAGGIO IMPLICITO

‘Sottomettiti a me’

COMPORTAMENTO

DOMINANTE

 

 

FRASE

Lascia fare a me (agli altri)

MESSAGGIO IMPLICITO

‘Non vali’

COMPORTAMENTO

MORTIFICATORE

 

 

FRASE

Sono nato per aiutarti

MESSAGGIO IMPLICITO

‘Mi sacrificherò per te’

COMPORTAMENTO

SUICIDIO

 

Ecco che il SALVATORE, figura svalutante che offre aiuti non richiesti, si pone in questo senso dentro una cornice di ruolo che attraverso il suo trasporto missionario è diretto ad appagare l’immagine di se stesso ed a soddisfare le doverizzazioni introiettate durante la sua esperienza primaria. Non è quindi interessato in modo verace a dispensare un caring efficace e all’altezza del profilo scientifico che ne fa da impalcatura. Egli rende conto soltanto a quei fantasmi interiori che gli hanno immesso i dettami e i precetti del comportamento da adottare come posizione unicamente favorevole ad ottenere riconoscimenti e considerazione affettiva. Senza il suo personaggio, il SALVATORE si troverebbe costretto a guardare se stesso attraverso una nudità identitaria disinvestita da un falso Sé e da un clamoroso ingannevole profilo. Scoprire questa verità potrebbe rivelarsi terrificante, perché la riorganizzazione psicodinamica richiede un processo che implica anche la sofferenza e il ribaltamento radicale del proprio sistema interno di convinzioni. Ma d’altra parte è proprio questo il punto in cui è necessario approdare, quella rotta essenziale verso cui condurre tutti coloro che sono impegnati nel proporsi e prodigarsi come guide efficaci, responsabili e competenti verso il prossimo.

 

Nuccio Salis

Potrebbero interessarti ...