comprendere se stessi con... le foto


 

comprendere se stessi con... le foto

 

            Realizzare foto oggi è facile, facilissimo, basta "puntare" la telecamera o il cellulare sul soggetto che ci interessa e scattare; da subito possiamo verificare se la foto ci soddisfa, possiamo eventualmente eliminarla, possiamo condividerla e tutto questo senza conoscere proprio nulla di obiettivi, focus, distanza, controluce...se mai accediamo al programma del foto-ritocco, se proprio vogliamo essere perfezionisti, per renderla come piace a noi. Sul web, tra cellulari, in ogni dove alimentiamo uno scambio di immagini e foto di proporzioni inimmaginabili fino a qualche anno fa, ma anche in questo caso, quantità non è necessariamente indice di qualità e ci concediamo di ignorare ad esempio le norme basilari che fanno della fotografia ben altro che la mera riproduzione della realtà.           Riconosciamo e possiamo condividere l'entusiasmo di Emile Zola che nel momento in cui la fotografia iniziava a diffondersi, l'abbia considerata prova oggettiva della realtà tanto da definire il suo nuovo genere, il romanzo "sperimentale", come un  fotografare  i bassifondi parigini, ma la fotografia è ben altro, è arte e, come tale, anch'essa è interpretazione della realtà, non riproduzione, come neppure la "ripresa diretta" di un evento è riproduzione oggettiva e Umberto Eco ce lo ha mirabilmente esplicitato fin dagli anni Sessanta (del secolo scorso).

            Possiamo dunque non essere eccellenti fotografi, ma nel momento stesso in cui osserviamo una qualsiasi foto, certamente ci rendiamo consapevoli che ogni fotografia ospita più di quello che mostra: l'inquadratura seleziona una parte di mondo e l'immagine tuttavia non esclude un mondo più ampio, sottinteso e presente alla nostra percezione, alle nostre emozioni, alla nostra mente. È questa complessa e non del tutto controllabile percezione che  mentre osserviamo ci fa amare quell'immagine, ci lascia indifferenti o ci suscita fastidio. Più o meno consapevolmente davanti ad una foto lavoriamo sul "sapere trasversale", ovvero il contesto emotivo e cognitivo e costruiamo il senso della fotografia inserendola, forse anche con una buona dose di arbitrio, nel mondo più ampio di cui è una inquadratura e quel mondo assume sembianze e significati che collimano con il nostro. Così, guardando una foto che rappresenta anche una realtà a noi estranea, il mondo più ampio che esce dai limiti dell'inquadratura fotografica, e che noi percepiamo, non e' detto che corrisponda necessariamente a quello reale: e' quello ricostruito, ricordato, immaginato o inventato, sollecitato da ciò che la fotografia evoca in noi, in quel preciso istante in cui ce ne occupiamo. Guardare una foto è ben più che vedere, è ascoltare l'eco del nostro vissuto, è elaborare la nostra realtà evocata dall'immagine che la foto riproduce, è un esercizio efficace durante un colloquio di counseling: “giocare” con le foto per… dare voce a ciò che è in luce nella propria esistenza e a quello che è in ombra, "fuori fuoco".  Un esercizio che dà sorprendenti risultati in particolare con persone che  incontrano difficoltà a raccontarsi o che non hanno individuato ancora la natura del loro presente disagio.

            Un gioco dialettico fra figura e sfondo è quello che il counselor propone alla persona in aiuto, invitata ad osservare foto che non riguardano la sua storia personale, a sceglierne soltanto alcune per costruire con esse una storia, lavorando su quello che nelle foto è evidente e ciò che è sottinteso o “fuori fuoco”.

Non è previsto né richiesto che questo corrisponda necessariamente a quello reale, ma è importante che sia ricostruito, ricordato, immaginato o persino inventato, sollecitato da quello che la fotografia evoca alla persona in aiuto perché si ascolti per comprendersi e i risultati sono immediati, confortanti, chiarificatori, inducono in lei una piacevole rigenerazione di risorse e sensazione di leggerezza.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

           

 

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