EMOZIONI, UN LUSSO CHE NON POSSIAMO PERMETTERCI. Verso un mondo privo di empatia?

Inviato da Nuccio Salis

emozioni

Con il passaggio storico dalla definizione monolitica dell’intelligenza a una visione scientifica basata sulla multidimensionalità della stessa, i percorsi di ricerca e di intervento, sia nell’ambito dello studio della persona che nell’area dell’apprendimento, hanno dovuto modificare i loro paradigmi, e prendere atto di una complessità non dapprima considerata.
La persona concepita come una totalità di parti interdipendenti, insieme a un concetto più evoluto e completo di intelligenza, ha obbligato a guardare con un impegno di maggiore rigore alle dinamiche psichiche e comportamentali del soggetto umano, approfondendone ogni aspetto, e legandolo all’insieme di tutti gli elementi di cui ciascuno di noi è costituito.
Per un lungo periodo, ha prevalso negli ambienti psicologici accademici la convinzione che l’intelligenza dell’individuo umano fosse un processo limitato all’espressione logico-razionale, e che tanto più la prestazione esperita da tali procedure aderiva alle indicazioni standardizzate in ambito del problem-solving (specie quello scolastico), tanto più l’individuo fosse da considerare intelligente.


In pratica, ciò che si affermò fu un costrutto concettuale dell’intelligenza inteso come capacità di omologarsi e sottostare ai criteri uniformi comunemente accettati e conosciuti. All’interno di questa cornice così limitante, l’individuo capace di pensiero creativo e di generazione di ipotesi divergenti ed alternative ai percorsi noti e condivisi, finiva per essere considerato semplicemente come deviante dalla media, cioè statisticamente distinto dalla norma in linea con le aspettative. L’attenzione degli studiosi era dunque esclusivamente rivolta all’espressione quantitativa dell’intelligenza, trascurandone le potenzialità processuali qualitative e ri-costruttive della realtà.
La comprensione della stessa veniva dunque affidata a dei test, che sembrarono soddisfare l’ossessione psicometrica che aiutasse finalmente a dividere l’umanità in intelligenti (ovvero allineati e conformati alle attese delle prestazioni comuni) e non intelligenti (cioè persone in grado di prendere l’iniziativa in autonomia nel proporre percorsi o scenari differenti nelle soluzioni o nel fronteggiamento dei problemi).
Questo approccio del tutto ascientifico e piuttosto politico, portava a perpetuare ciò che il sistema richiedeva, soprattutto nell’ambito scolastico, ovvero castrare la creatività e la capacità critica dei soggetti pensanti e premiare coloro che seguivano pedissequamente le nozioni e le procedure acquisite durante l’esperienza dell’apprendimento.
L’atteggiamento nei confronti del QI (il quoziente intellettivo secondo la formula di William Stern) risentiva di un positivismo fideistico che fece perdere di vista la globalità della persona, che fu puntualmente e cartesianamente concepita “a pezzetti”.
Il risultato fu un generale e diffuso disinteresse per le differenze intellettive, per l’influenza delle componenti ambientali e per la partecipazione attiva della persona alla sua esperienza formativa. Quest’ottica fu quella che mise in una forzata relazione di continuità il successo scolastico ed il QI con la capacità di realizzarsi nella vita personale. Secondo questa visione unilaterale e pressappochista, solo chi conseguiva elevate prestazioni sostenute da buone valutazioni nell’ambito prettamente scolastico, aveva dalla sua parte un favorevole elemento predittivo circa il successo personale che avrebbe riscontrato in ambiti diversi da quello della scuola. E probabilmente, nel periodo in cui tutto questo era inconfutabilmente contemplato, aveva anche una discreta percentuale di ragione.
Ma la debolezza di questa analisi era destinata a rivelare tutta la sua fallacia che oggi conosciamo. Non è più ammissibile, infatti, descrivere attualmente l’intelligenza come una sorta di fattore costante K, innato, immutabile, che risponde soltanto alla capacità di elaborare risposte logico-razionali. La natura poliedrica dell’intelligenza, messa in auge in primo luogo dal Gardner, ha trasformato l’orientamento teorico circa la struttura e la funzione della stessa, deviando l’attenzione dei ricercatori su nuovi modelli, più completi e più soddisfacenti nel rispondere ad evidenze che hanno smentito l’esistenza di un rapporto lineare e diretto fra livello del QI e successo ottenuto nella vita personale.
Gli obiettivi raggiunti nella propria esistenza, infatti, spesso sono dovuti proprio al fatto che si riesce con successo ad affrancarsi rispetto alle norme più comuni di ragionamento ed ipotesi. È la creatività a premiare forme più efficaci ed evolute di adattamento e di problem-solving, peraltro trasmissibili anche nella specie. Il problema è insito semmai nella diffusa difficoltà a non accettare la differenza del pensiero e del comportamento.
La logica da sola non è sufficiente a fondare l’individuo umano come essere compiuto e come produttore di una civiltà che realizzi un vero progresso, fondato soprattutto sulla gioia; e ciò è parere perfino di chi ha perorato da sempre per un approccio illuminista, che portato alle sue estreme conseguenze, infatti, non può rinunciare alla critica sull’idea purista della ragione.
Se storicamente, infatti, si è rivolto un affidamento acritico al potere della ragione (da cui per l’appunto il paradosso dell’acriticità), ci si è dovuti poi rendere disgraziatamente conto che la stessa non era in grado di assicurarci la creazione di strutture sociali adatte all’evoluzione dell’essere umano, così come da sola non può soddisfare né spiegare le nostre istanze profonde, nè le dinamiche psichiche legate alle passioni, e tanto meno la ragione può darci strumenti realmente comprensibili circa fenomeni della realtà che sfuggono alle formulette matematiche, alle categorie e alle ipotesi di prevedibilità.
L’illusione illuminista tracolla ed implode di fronte alla complessità dell’essere umano ed alla sua natura ontologicamente mistica e spirituale.
La psicologia ha saputo abilmente correre ai ripari, e forte della sua ispirazione umanistica ha introdotto e maturato nuove chiavi di lettura dell’intelligenza umana, riabilitandola come una variabile non limitata all’area logica, ma capace di manifestarsi e di abitare nella molteplicità delle dimensioni espressive dell’essere umano.
Attualmente è notoriamente risaputo che in una società dove non si costruiscono rapporti di reciproca solidarietà ed alleanze amicali e di partnership fondate su sentimenti autentici, di unione e partecipazione, qualunque gruppo o civiltà umana è destinata al collasso. La competitività violenta, disvalore numero uno acquisito dalle più comuni forme del convivere, sta infatti dirigendo l’umanità verso questo inevitabile epilogo. Qui non c’entra niente il pessimismo o il suo contrario, è sufficiente avere elementari nozioni di sociologia, e un po’ di sensibilità, congiunta perché no al coraggio di accettare la verità dei fatti.
Nel meccanicismo alienante, prodotto proprio da quella mentalità positivistica che avrebbe dovuto emancipare l’uomo, e che invece ne ha fatto un automa incapace di guardare dentro se stesso e di incuriosirsi al mistero e all’imponderabile, l’essere umano ha finito per vivere dentro una prigione senza sbarre, dentro cui è capace soltanto di rispondere reattivamente a stimoli per cui è stato programmato. La logica ha prodotto quanto di più illogico, grottesco e paradossale questa era abbia mai conosciuto. L’esaltazione di quel 9% della funzionalità cerebrale ha spento e disattivato il restante 91%, abituandoci alla mistificazione, e a difendere la stessa con la paura di scoprire ed esplorare chi siamo veramente.
Questo essere, funzionale al sistema che lo ha fabbricato serialmente, esattamente come si fa con una saponetta, oggi sembra sforzarsi, almeno in parte, di voler superare questo inganno percettivo chiamato realtà, la cui struttura lineare sembra non più corrispondere alle reali esigenze profonde ed innate di un essere umano. E le risposte a cui affida i propri dubbi non sono più esaudibili dalla ragione, ma semmai possono chiederne la collaborazione, dal momento in cui si vogliono rivalutare quei luoghi della propria intelligenza che sono in stretto legame con le nostre attitudini, doti e talenti.
Ed allora, diventa per esempio essenziale cogliere il valore dei legami interpersonali, per ricostruire un senso di appartenenza e trarre profitto compartecipato, accompagnato dalla soddisfazione di aver contribuito al benessere degli altri e ad un vantaggio di gruppo, di aver sviluppato e compreso lo spirito di squadra. Quello che si propone è dunque la necessità di un’educazione sociale ed emozionale che sposti la prospettiva da egocentrica ad altruista. Ecco perché la mente razionale da sola è perduta; perché una progettualità che leghi le attività umane alla produzione del benessere collettivo ha bisogno di una intelligenza sociale ed emotiva, la sola in grado di promuovere legami di sostegno fra tutti, e l’unica capace di far gestire sapientemente i conflitti.
L’educazione all’affettività dovrebbe dunque essere prioritaria, e non assecondata o emarginata da un imperante modello mentalistico, mai scalzato e messo in discussione nelle istituzioni scolastiche. Che se ne fa una mente di dati, statistiche e nozioni inculcate mnemonicamente e in modo acritico, se non può gestire e comprendere il proprio mondo emozionale? Come si può riempire la mente di un bambino di informazioni spesso antistoriche ed inservibili, e lasciarlo nel disagio delle sue tempeste emozionali? A quale tipo di società stiamo pensando? Quale adulto vorremmo che un giorno si occupasse della cosa pubblica? Il cinismo e la violenza che vanno diffondendosi sono descrittive del modello sociale che si va formando in modo sempre più strutturato e definito.
Ciò che accade, paradossalmente, in un mondo così immaturo ed impreparato a leggere i contenuti e i processi emozionali, chi si orienta tenendo conto anche di ciò che sente, piuttosto che soltanto di ciò che sarebbe “logico”, potrebbe trovarsi in difficoltà proprio perché ha considerato aspetti della vita che tengono conto dei sentimenti e delle affezioni altrui.
Questo può significare che i sentimenti possono finire per essere trattati alla pari di un disturbo che interferisce con le proprie pratiche, e che renderebbe impossibili determinati comportamenti funzionali rigorosamente a se stessi. Esempi: se per ottenere un avanzamento di carriera devo sorvolare sull’inevitabile scorrettezza che devo infliggere al mio collega, un sentimento di stima per il mio collega e un presentimento di colpa o di scrupolo, mi impediranno quello scatto di prestigio e di rivalsa che ho agognato meritatamente da troppo tempo. Al lettore, valutare da se cosa in genere si sceglie e si preferisce fare. Se scuoiare il cranio di uno scimpanzé mi serve a farmi nominare in un articolo di una rivista scientifica, l’empatia verso l’animale mi farà perdere la possibilità di avere riconoscimenti e finanziamenti.
Ragion per cui, lo scrupolo, l’empatia, la correttezza, il sostegno all’altro, sono tutti sentimenti che confliggono con i piani ambiziosi che impongono spesso un aut-aut: o gli altri o te stesso. Dividere può implicare la rinuncia ai propri progetti. Consegnare l’informazione a un amico su un posto di lavoro che si è liberato, può significare averlo come concorrente. No, questo mondo non è il posto adeguato per l’amicizia. No, decisamente.
Per rendere pensabile e presentabile un progetto di educazione socio-affettiva, è necessario immaginare lo scenario di un mondo alternativo. È necessario anche assumersi l’impegno di formare un nuovo tipo di essere umano, e per rendere attuabile la bontà circa la mole di tale idee, occorre contribuire a sviluppare l’intelligenza emotiva, e conoscere prima di tutto l’ambito delle sue qualità espressive.
Un primo requisito che sovente viene indicato riguarda l’autocoscienza, ovvero la competenza che si possiede in riferimento al sostare con le proprie emozioni, riconoscendole e conferendo loro una precisa collocazione. Dal presupposto base di questa prima impalcatura, infatti, prende forma la capacità di gestione appropriata delle emozioni. Questa abilità consiste nel regolare adeguatamente soprattutto le conseguenze comportamentali del proprio livello emotivo, prevenendo l’acting-out e dosando sapientemente l’eventuale onda di “tempesta ed assalto”, prodotta per esempio da emozioni quali la rabbia o la paura.
Dal contatto al controllo, si potrebbe chiosare per descrivere seppur sinteticamente questo passaggio. Una terza dimensione viene identificata nella motivazione, attraverso cui si individua l’obiettivo che fa per l’appunto andare verso, o e-movere (da cui deriva l’espressione emozione) dritti allo scopo che ci siamo preposti, dedicandovi attenzione, mantenendo la concentrazione e soprattutto ritardando la gratificazione, senza avere fretta di concludere e scegliendo la giusta tempistica.
Il fiore all’occhiello della competenza socio-emozionale è l’empatia, di cui si rimarca l’utilità nel saper accogliere e reperire quei segnali di espressione emozionale del mondo altrui, compartecipandoli con modalità senziente, aprendosi cioè alla possibilità di comunicazione e contatto interpersonale, fondata su uno scambio proficuo di esperienze e di vissuti.
L’unione fra queste abilità offre come risultante la capacità di gestire con efficacia le relazioni interpersonali, costruendo per esempio una rete di legami sociali caratterizzati dall’elemento del supporto, dell’amicalità e di un genuino senso di alleanza. Fra le tre tipologie indicate in letteratura, nell’ambito degli studi socio-emozionali: autoconsapevoli, sopraffatti e rassegnati; i primi sono indicati come coloro che godono di maggiore vantaggio nella capacità di adattamento sociale, in quanto bravi ad intercettare ed esperire i propri stati d’animo seguendo modalità appropriate. Costoro avrebbero una visione di sé maggiormente chiara, un senso del limite e di autonomia che li renderebbe maggiormente sicuri, ovvero in possesso di quei requisiti che dovrebbero costituire un individuo equilibrato. Questo è dunque l’individuo che dovrebbe essere formato, anche al fine di arginare il costosissimo prezzo sociale della mancanza di educazione socio-affettiva, una lacuna che continua a lacerare il tessuto sociale, trasformando in violenza la mancanza di un’adeguata conoscenza ed uso del linguaggio delle emozioni.
 

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