Autenticità e verità interiore. Oltre le illusioni del reale

Inviato da Nuccio Salis

certificato autenticitaCosa è l’autenticità? Cosa significa essere autentici? Fra la scintilla primigenia interiore che è specchio dell’infinito Cosmo, e la realtà degli elementi tangibili o senzienti, esistono diversi filtri che erigono fra noi e i fenomeni esterni a noi un velo traslucido che separa, adombra e distorce la visione delle cose. Insomma, la realtà è illusione. Forse non dovremmo dire “la realtà è” quanto piuttosto “la realtà appare”. La realtà è inganno, percezione soggettiva, apparenza, per l’appunto. Ma fino a che punto lo è? Si potrà obiettare che se ho un malessere, questo è un fenomeno obiettivo, lo si può misurare ed affrontare anche con l’ausilio di tecniche di intervento, oppure se la mia condizione è quella di disoccupato, emarginato, profugo; tutto ciò implica disagi e difficoltà che sono verificabili e maledettamente veri, oggettivi e dimostrabili.  Manca sempre qualcosa: per quanto una condizione di realtà sia misurabile e valutabile secondo parametri di condivisa e comune accettazione, essa è inevitabilmente letta ed interpretata alla luce del sapore soggettivo con cui ciascuno di noi le da significato e ordine di valore. Pertanto, condizioni psico-fisiche o socio-economiche, standardizzate secondo coordinate comunemente validate, possono essere ridimensionate in virtù della nostra vivace magmaticità intrapsichica. In vero, sembra proprio che non possiamo evitare di interpretare il mondo, di promuovere in modo perpetuo un paragone fra ciò che esiste al di dentro e ciò che abita nel di fuori da noi.

 

Se dunque, gran parte della realtà conosciuta mediante l’esperienza del contatto, è significata proprio secondo le nostre propensioni e sensazioni, vuol dire anche che è dalla stessa che abbiamo attinto una serie di stimoli per mezzo dei quali la abbiamo elaborata, e dunque il ritorno sulla medesima in termini di atteggiamenti e rappresentazioni è dipendente da vissuti e costrutti interni che l’hanno mistificata. A questo punto, per naturale conseguenza, se mi nutro di qualcosa di mistificato, anche la visione interiore ne verrà imbrogliata, e ci sarà difficile avere accesso alla trasparenza originaria come nucleo primigenio che costituisce l’essenza della mia verità incorruttibile. Questa, infatti, avrà cominciato ad inquinarsi dal primo rapporto di contatto con la realtà. Prendere contatto con la cosiddetta realtà implica questo, perdersi, corrompersi, e forse mai più ritrovarsi, in questa vita. Ma allora, verrà probabilmente spontaneo domandarsi, sto forse proponendo di non prendere mai contatto con la realtà? Non ritengo sia né possibile né auspicabile, e forse devierebbe dal senso stesso della nostra missione. Tuttavia, qualcosa si può fare: avere per esempio la consapevolezza che una volta sceso nel mondo del “visibile” e del “senziente”, secondo un’accezione materiale dei termini, entrerò anche io a far parte del caos degli elementi della realtà tangibile dell’al di qua, per cui sono io stesso un fattore inquinante per altri agenti sociali, tenuto in vita da una serie di proiezioni riversate sul mio involucro di vestiti e carne. Stessa cosa faccio io, tanto è che la vita sociale diventa una sorta di carnevale delle maschere, e la vita di relazione una continua esperienza di aggregazione vissuta mediante rappresentazioni sceniche e copioni drammatici già prescritti. Insomma, l’autenticità non sembra proprio essere la nostra migliore virtù. Spesso crediamo di esserlo, ma ci inganniamo nel momento stesso che la facciamo passare attraverso una sovrastruttura.

Qualcuno mi spieghi come sia possibile pensarsi un “padre autentico”, un “operatore sociale autentico”, un “confidente autentico”, dal momento che l’autenticità viene appaiata ad un ruolo, ovvero avvilita sopra il gioco delle aspettative e delle maschere sociali. L’autenticità, dal momento stesso che viene descritta secondo parametri e linguaggi disciplinari specialistici, sta già entrando dentro un orizzonte interpretativo, e si sta ammantando di attributi ai quali dovrà poi attenersi se vuole conservare la sua proprietà ed essere ritenuta tale. Mi chiedo come possiamo descrivere una cosa che non possiamo conoscere.

Chi è veramente autentico? Viviamo nel mondo relazionandoci attraverso il primo grande simulacro dei simulacri: il corpo, prima e significativa interfaccia-confine fra noi e gli altri. Poi maturiamo un’immagine interna di noi, un Ego, un’identità e una personalità, tutti elementi costruiti dal rapporto con il calderone degli oggetti dell’inganno, ed ai quali noi ci attacchiamo in modo dipendente, con atteggiamenti conservativi e resistenti ad ogni possibile destrutturazione o riordinamento. Cioè, a me sembra che cerchiamo l’autenticità partendo da ciò che non è autentico. L’autenticità è anima, pre-esiste, sa come deve vivere e cosa deve cercare, ma la realtà la circuisce e la devia in altre direzioni, le fa perdere la memoria e la percezione di stessa. Per ritrovarsi non le rimane che il linguaggio della morte, del disagio e della malattia. L’autenticità è irraggiamento del principio vitale, se troviamo questo, senza sovrastrutture, forse troviamo anche l’autenticità, e non ci rimane che agirla. A questo punto possono cominciare i problemi. E già, perché l’autenticità è rivoluzione. L’autenticità è purezza cristallina, è l’oasi che coabita confinando con le falde inquinate delle falsità di cui siamo intrisi. Per ritrovarla, forse, non dobbiamo aggiungere ulteriore pattume, ma perderci e dimenticarci, rinascere e rifondarci non in adesione a quanto ci viene subdolamente prescritto dalle aspettative sociali. L’autenticità si esprime se si fa il pieno di vuoto.

Il percorso dell’autenticità, dunque, più che un andare in avanti, secondo un principio di affermazione all’occidentale, sembra essere un recupero di ciò che è stato sepolto da ammorbanti falsi principi, distraenti ed occultanti rispetto alla vera essenza dell’autenticità.

La riscoperta dell’autenticità può essere il ritrovamento del proprio senso dell’esserci, e come dice sostanzialmente James Hillman è fondamentale esplorare e scoprire il motivo per cui la mia persona, che è unica al mondo, debba esistere anche cogliendo pienamente il legame col mondo medesimo che è altrettanto motivato ad accoglierla come elemento dalla presenza non casuale ma significativa e congiunta ad un unico progetto di evoluzione. Egli ci spiega che ciascuno di noi è legato ad una profonda sensazione di avere un immagine innata i cui contorni affondano nell’essenza originaria ed il cui contenuto viene via via infoltito dalla nostra personale trama storica. Pertanto l’esistenza coincide col riempimento della nostra biografia, che può essere appagante e pienamente rispondente alla nostra vera natura solo dal momento che la sua trama si attiene al suo tema nativo che le fa da contorno, che Hillman chiama immagine innata. È questa che possiede la vera essenza di noi stessi e che va rintracciata se è stata perduta, attraverso un lavoro di esplorazione e riscoperta di se che ci permette di riappropriarci della vera storia e del vero destino autodeterminato che ci è stato evirato dalle massificanti bugie. Sotto questo aspetto, ciascuno di noi rappresenta dunque una biografia derubata, da riscrivere, nel pieno rispetto della linfa vitale individua che pre-esiste dentro ciascuno di noi.

L’autentico, il puro di cuore soltanto potranno salvarsi, in quanto, come pronuncia Gesù nel Vangelo di Matteo: “Se non sarete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli”.

Nel successo di questo percorso si gioca l’ingresso nella dimora dell’infinita Gioia. 

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