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Come comunicare una prognosi infausta

Inviato da Miriam Macchioni

comunicare diagnosi

La sincerità non è sempre facile da attuare, ma è il mezzo più concreto e corretto. Mentire non è utile né a chi inganna né a chi subisce. In molti casi si preferisce farlo per non ferire la persona che si ha di fronte, ma non esiste solo la mente conscia che può essere raggirata. L’animo comprende molto bene ogni sorta di situazione e sa già tutto a prescindere dal discorso che si andrà ad affrontare.

 La comunicazione di una prognosi infausta non è mai semplice. Intanto chi ha il compito di dare questa notizia, deve aver fatto un percorso evolutivo. Non si può pensare di offrire un aiuto se noi stessi abbiamo paura della malattia e della morte. Importante è anche sapere chi abbiamo di fronte e che tipo di aspettative egli ha. Sono importanti molti fattori: la religione, la cultura, il credo, i condizionamenti, le abitudini e di primaria importanza è la famiglia. Questa gioca un ruolo importantissimo, tanto che si avrà a che fare con il malato e con i famigliari. Spesso, soprattutto in occidente, vengono informati prima i parenti che non l’interessato e questo è sbagliato, perché si possono verificare azioni protettive che portano a manipolazioni, a messaggi trasversali, difficile poi da gestire. Spesso la famiglia preferisce il non detto che porta frustrazioni e sensi/complessi di colpa. Il malato sa in che situazione si trova e se non gli viene comunicato il referto comunque lo intuisce, creando quel rapporto terribile che si verifica: “Non dico nulla, perché i miei famigliari non vogliono sapere”.

Mi è capitato in famiglia di vivere tristemente una situazione tale. Praticamente mio zio aveva un tumore che gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita. La famiglia ha preferito il silenzio alla possibilità di permettere al malato una consapevolezza della sua situazione e una probabile evoluzione. Questa decisione mi ha messo in crisi, poiché quando sentivo mio zio al telefono non sapevo come esprimermi per evitare malintesi e questo mi ha creato un po’ di disagio. Non sono d’accordo su questa decisione, anche se ne comprendo la scelta. Mia zia ha cercato in tutti i modi di alleviargli il dolore, assumendosi sia la propria sia la responsabilità di altri. Sarebbe stato meglio affrontare insieme una triste realtà, piuttosto che lasciare il malato senza un appoggio empatico. Del resto ognuno di noi sa nel profondo che è giunta la fine, ma purtroppo per paura evitiamo di comunicare il nostro sentire. Se poi la nostra paura si somma a quella dei famigliari, la rimozione è del tutto naturale. Un altro atteggiamento avrebbe potuto evitare maggiore sofferenza, poiché quando uno conosce la verità può decidere che strada intraprendere. Essere sinceri e autentici è il miglior modo di aiutare le persone e in situazioni così delicate bisogna sempre farlo con cautela, empatia e delicatezza, a meno che sia proprio il malato a chiedere di non voler conoscere la verità.

Molti professionisti sono preparati e pronti ad affrontare situazioni problematiche, altri invece preferiscono una comunicazione fatta di omissioni, informazioni ambigue e parziali, oppure quella più precisa con atti formali, che risulta asettica e senza tatto. Questo dipende dal tipo di società e istruzione. La comunicazione della diagnosi è anche il momento in cui ha inizio una condivisione di sentimenti: dolore, disperazione, fiducia, angoscia. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere mai elementi di speranza e di scelta.

Elisabeth Kuebler Ross, considerata la fondatrice della psicotanatologia, ha scritto molti libri nei quali racconta le esperienze avute con i suoi pazienti. Un evento infausto può causare cinque possibili cause: shock/rifiuto, rabbia/collera, venire ai patti, smarrimento e la famosa resilienza, ossia la fase finale che è l’accettazione. Naturalmente sarebbe necessario seguire il paziente in tutte queste fasi e non lasciarlo solo, aiutando anche i famigliari che più o meno avranno gli stessi sentimenti e le stesse emozioni.

Anche in campo medico molti professionisti sono stati sensibili a questo momento, importante per la serenità di chi è colpito da gravi malattie che non danno alla persona altre possibilità che affrontare la fine della vita terrena. Uno di questi è Robert Buckman che ha scritto un libro: “La comunicazione della diagnosi in caso di malattie gravi”, nel quale riassume uno schema molto interessante:

Sintesi di ogni fase che caratterizza il processo di comunicazione di una cattiva notizia secondo l’acronimo SPIKES proposto da Buckman (1992).

S = Setting: Iniziare, preparando il contesto e disponendosi all’ascolto

P = Perception: Capire il punto di vista del paziente circa la propria situazione (che idea si è fatto, cosa sa riguardo alla malattia)

I = Invitation: Invitare il paziente ad esplicitare in che misura vuole essere informato rispetto alla diagnosi, alla prognosi e sui dettagli della malattia

K = Knowledge: Fornire le informazioni necessarie a comprendere la situazione clinica

E = Emotions: Facilitare l’espressione delle emozioni, in modo tale da comprendere la reazione emotiva e rispondervi in modo empatico

S = Strategy summary: Negoziare una strategia d’azione che tenga in considerazione le aspettative e i risultati raggiungibili. Lasciare spazio ad eventuali domande. Riassumere. Verificare la comprensione. Concludere.

L’attitudine alla comunicazione secondo me è innata, se per innata intendiamo che è una qualità dell’Atman. Quindi se ci rivolgiamo alla persona, cuore a cuore, sarà un meraviglioso incontro, se diversamente interverrà l’ego, allora sarà un dialogo impari e non porterà a ciò che desideriamo: aiutare la persona che in quel momento ne ha bisogno. Poiché spesso prevale la parte egoica di noi stessi, la comunicazione empatica e compassionevole presuppone formazione, studio, affinamento, miglioramento continuo e deve essere personalizzata in funzione del desiderio di informazione, dei bisogni e del contesto del malato.

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