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Io e l'Altro, tra Estraneità, Conoscenza e Incontro

Inviato da Fabio Tempesta

 

 

Quando comunichiamo con l'altro, potremmo interrogarci con chi realmente stiamo comunicando.

Effettivamente siamo molto più spesso in contatto con l’idea dell’altro piuttosto che con la sua effettiva realtà.
Spesso quella con cui ci relazioniamo è la nostra personale fantasia dell’altro.

Questa fantasia nella migliore delle ipotesi non è fondata sul nulla, ed è basata su ciò che sappiamo dell’altro, sulla nostra conoscenza acquisita.

In questo modo anche se il nostro sapere sull’altro dovesse essere una accurata rappresentazione della realtà, diciamo una buona mappa, ci staremmo comunque rapportando all’ altra persona nel passato, attraverso il passato.
Ciò che sappiamo dell’altro, la nostra conoscenza pregressa, è il passato dell’altro e per giunta secondo noi.
Questa è la polarità della conoscenza o della familiarità dell’altro. L’altro è ridotto alla mia esperienza a ciò che presumo di lui.
Crediamo di sapere, ci riferiamo alle nostre categorie pre-elaborate, alle esperienze acquisite.

 

In questa modalità ciò che sappiamo dell’altro si frappone tra noi e lui come un filtro opaco, uno schermo deformante.

Nella polarità opposta, l’altro ci appare invece come totalmente sconosciuto, come irraggiungibile, come non-conoscibile.

Con questo tipo di persona ci immaginiamo possibili solo rapporti formali, scambi occasionali e circostanziati, passatempi e nulla di più.
Anche questa modalità nega la possibilità di incontro e di intimità.

Paradossalmente temiamo l’intimità anche se quando la pratichiamo la percepiamo meno rischiosa e più nutriente delle relazioni superficiali.
In queste relazioni il rischio di non essere compresi, riconosciuti, il rischio di fraintendimento e di delusione sono molto più alti che nell’intimità..

Una modalità di uscita da questa impasse, dalla polarità del familiare e dello sconosciuto è secondo me la pratica dell’Incontrare.

L’incontro presuppone un giusto equilibrio, un oscillazione tra familiarità ed estraneità.
So di sapere qualcosa di molto limitato e parziale, e so che questo è un momento necessario, di partenza per avvicinarmi all’altro condividendo una base comune, un linguaggio condiviso.
La mia fede in questa conoscenza è però molto relativa, anzi so diffidare saggiamente di ciò che so, pur non negandolo, riconoscendo la necessità di una base d’appoggio.

L’incontrare non annulla l’alterità ma si avvicina ad essa, senza cercarne una completa chiarificazione.
L’incontrare ama sia la luce che l’ombra.
Nell’incontro autentico ci si muove tra distanza e vicinanza, in quello spazio instabile che è in grado di generare l’intimità.

Portare in figura l’estraneità dell’altro, la sua irriducibilità alle categorie che uso per conoscerlo, fonda la possibilità di incontrarlo nel qui e ora, nella danza del reale.
 

L’incontro accade sempre in un apertura, in una rinuncia alle sicurezze illusorie, e in una rinnovata fiducia nel processo in atto.

La “mente che non sa” o anche la “mente di principiante” come viene chiamata nel buddhismo zen, si rivela un alleato eccezionale ad una conoscenza viva e ad un incontro reale nel qui e ora.
Questo non sapere, permette all’altro di spiazzarmi, di essere se stesso in modi sempre diversi e nuovi, di potersi inventare e reinventare.
Se io invece pretendo che l’altro rimanga fedele all’identità che gli ho attribuito, e gli  trasmetto questa richiesta anche inconsciamente o sottilmente, manipolandolo, gli impedisco di crescere evolversi e di essere altro da sé.
L’altro in un certo senso deve sapere che non sappiamo mai interamente chi egli sia e che vediamo e accogliamo la sua potenzialità, il suo essere diverso da se stesso, il suo divenire piuttosto che la sua identità.

Riflettendo, possiamo notare come queste modalità spesso riflettano anche un modo di relazionarsi a noi stessi.

Da un lato, crediamo di conoscerci fin troppo bene, sappiamo come siamo fatti e ci precludiamo così la possibilità del cambiamento.

Nell’altro caso, non ci frequentiamo, non ci conosciamo, siamo estranei a noi stessi e ci limitiamo ad avere un rapporto formale, magari anche cordiale, con la nostra interiorità.

Vediamo quanto sia importante e fruttuoso applicare la modalità dell’incontrare verso noi stessi e le nostre parti interne.
Saperlo fare con noi è il presupposto per saperlo fare con l’altro.
Mi conosco realmente, abbandonando ciò che so di me, scoprendo ciò che sono ora, ciò che è nuovo dentro di me e che si genera nell’istante presente.
E posso lasciar spazio a questo processo proprio non sapendo, lasciando spazio al silenzio, alla possibilità.

La conoscenza di sé che si matura in questo processo è esperienziale, autentica fluida e dinamica.
Questa conoscenza sarà quella conoscenza minima necessaria ad avvicinarmi di nuovo a me stesso, che mi ricorda che l’incontro è possibile, l’intimità dell’ascolto è possibile, che non sono totalmente sconosciuto a me stesso, e nel mistero che sono, possono manifestarsi lampi di intuizione e di consapevolezza.
E comunque posso sempre essere differente rispetto all’essere che ero poco fa.
Il sapere che si produce in questa esperienza di contatto intimo è un sapere che rimane umile, si rinnova sempre nel qui e ora e cosciente dei suoi limiti.

L’incontro rende possibile il cambiamento, l’evoluzione, la trasformazione perché non congela l’esperienza reale e vibrante del Sè, pur avvicinandosi intimamente ad esso.

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