Dal teatro Noh alla “danza delle ombre”


nohLa parola Noh significa capacità, abilità E' il nome di una peculiare forma di genere teatrale giapponese, perfezionato 600 anni fa, con radici che affondano nel mito, un dramma poetico recitato, cantato e danzato. Ha generalmente un attore principale (spesso mascherato), uno secondario, e un coro. Fino al secolo scorso si trasmetteva oralmente da padre in figlio solo all'interno delle famiglie di attori, e solo in questo secolo l'insegnamento è stato esteso fuori dalle famiglie e anche alle donne. E’ una forma espressiva estremamente stilizzata, rappresenta storie drammatiche o tragiche tramite lenti movimenti ritualizzati, accompagnati da una recitazione basata su suoni gutturali, con un sottofondo musicale di percussioni e suoni di flauto.

La trama è deliberatamente soppressa ed il dramma costituisce un’esplorazione di emozioni e stati d'animo dei protagonisti. La differenza con le forme teatrali occidentali è enorme: l’antagonismo, il conflitto, la soluzione, la catastrofe, la lotta, ecc. sono quasi completamente assenti, sostituiti dall'esposizione di una condizione interiore che raramente si sviluppa o si risolve: essa viene semplicemente descritta. Nel Noh come in altre tradizioni teatrali asiatiche, la corrispondenza tra teatro e pratiche rituali e meditative è ovvia, sia nello spettacolo stesso, sia nelle prove. Attraverso le tecniche del Noh, l’attore può risvegliare e mettere in moto energie e potenzialità altrimenti trascurate, addormentate, nel proprio vivere quotidiano.

Nell'allenamento egli sviluppa la capacità di osservare se stesso mentre si muove e mentre canta. Si osserva non con lo sguardo, ma dall'interno, attraverso percezioni fisiche trascurate nel quotidiano: piedi che strisciano sul palco, percorso del respiro nel corpo, centro di gravità nel bacino. Così si diventa più consapevoli della propria energia interna, imparando ad attivarla e controllarla per mantenere il giusto equilibrio.

Da queste sintetiche nozioni riguardanti il teatro Noh appare abbastanza evidente quanti e quali siano i punti di contatto tra i principi ispiratori di questa forma artistica e quelli su cui si fonda il counseling. Innanzitutto il concetto, molto Rogersiano, secondo cui la condizione interiore del personaggio principale non viene giudicata o etichettata ma semplicemente descritta e rappresentata nella maniera più “fenomenologica” (per fenomenologica si intende la descrizione del “fenomeno” osservabile e ascoltabile nel modo più aderente a come esso si manifesta, spogliandolo cioè il più possibile da interpretazioni, giudizi o vissuti personali) possibile.

Ma i punti di contatto sono anche altri, primo tra tutti l’importanza della consapevolezza personale raggiunta, nel teatro Noh, attraverso la ripetizione quasi ossessiva degli stessi movimenti, fino ad entrare sempre più profondamente nelle sensazioni corporee ed emotive che la rappresentazione di quel movimento causano in noi, “osservando da dentro” i nostri cambiamenti rispetto a quell’emozione nel corso del tempo.

Utilizziamo così il corpo e la consapevolezza emotiva in una forma di meditazione in movimento, sicuramente più congeniale a noi occidentali rispetto alla meditazione classica, basata principalmente sull’osservazione del proprio respiro prolungata nel tempo.

Per questo motivo, nasce la “Danza del Folle”, intuizione geniale del grande terapeuta gestaltico Paul Rebillot, volta ad integrare l’esperienza del teatro Noh con la danza, il respiro, la meditazione e la consapevolezza personale, elementi spesso presenti nei percorsi di auto esplorazione e così utili per la conoscenza di sé. In questo tipo di danza elementi fondamentali di auto-osservazione sono il percorso che ciascuno fa per spostarsi da una posizione ad un’altra e le sensazioni/emozioni provate nel mantenere fissa per alcuni secondi, che a volte sembrano eterni, una determinata posizione.

Il nome (danza del folle) non ha nulla a che fare con la pazzia bensì con la figura dei tarocchi (in francese fou, folle appunto) che è quella che porta la vitalità in tutte le altre figure di per sé più statiche. Dopo un inizio difficile (ho sempre avuto difficoltà ad esprimere le mie emozioni attraverso il movimento) la “Danse du fou” ha rappresentato una tecnica molto potente ed efficace nel mio percorso di consapevolezza nel momento in cui il mio corpo “ha deciso” di seguire il flusso del movimento e l’armonia della danza.

Per questo motivo ho voluto approfondirne le origini, cambiandola anche un po’ intanto nel nome poiché non amavo tanto quello a cui mi rimanda il termine “folle”. Ecco quindi che la danza del folle diventa per me la “danza delle ombre” perché danziamo parti di noi che a volte nemmeno sappiamo di avere, che sono quasi inconsistenti e non afferrabili, ma assolutamente presenti e reali nonché parte integrante di noi, proprio come la nostra ombra.

Inoltre il raggiungimento delle varie posizioni viene accompagnato da una micro-danza preparatoria ed introduttiva che aiuta l’individuo a centrarsi sul proprio vissuto e a dare maggiore fluidità e naturalezza alla posizione statica che poi rappresenterà l’emozione o situazione che vorrà esplorare nel corso della danza-meditazione.

Questo perché ho sperimentato che non è semplice, con il nostro approccio occidentale, “entrare” in una posizione consapevoli di cosa essa significhi per noi lasciando spazio al corpo, troppo spesso “sacrificato” alle ragioni della mente.

Marco Andreoli FC accreditato presso il CNCP

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