Bisogna dire la verità ai malati?


Oggi questa domanda suona strana se non incongrua; la risposta ci sembra ovvia: il dovere del medico non è forse quello di informare il paziente circa il suo quadro clinico, anche quando la diagnosi è di quelle che un medico non vorrebbe mai dover comunicare e il paziente mai sentirsi dire? Siamo ormai abituati a espressioni come “consenso informato” e “ diritto di sapere quanto tempo rimane”, anche per motivi molto pratici (economici, legali, religiosi o altro); nondimeno il passaggio dal dovere astratto ai casi concreti e alle situazioni particolari non è per niente agevole, e i codici deontologici dettano sì le norme generali che un professionista è tenuto a osservare con scrupolo, ma vediamo che non sempre, ahimè, queste buone norme vengono rispettate o correttamente interpretate.

Prendiamo il caso riferito dallo scrittore Ferdinando Camon sulla “Stampa” del 30/05: “E’ giusto che il medico curante dica, al paziente inguaribile e ai suoi parenti stretti, che morirà entro pochi mesi? Il primario che m’ha sbattuto in faccia questa sgradevole verità mi ha spiegato: siamo obbligati per legge a dire la verità, se il paziente ce la chiede non possiamo essere né mendaci né reticenti, perché se gli diciamo un’altra verità e lui viene a sapere la verità vera, può rivalersi su di noi per l’inganno. Se un medico dice che questa è la nuova etica dei medici devo credergli. Tuttavia, dire la verità e dirla con termini netti, spietati, senza scampo, sarà deontologico ma non è umano”.

Che cosa non è umano? E’ forse possibile che in certi casi una pietosa bugia sia più umana di una cruda verità? E non potrebbe darsi il caso che una certa bugia, in determinate circostanze, sia più vera di una verità detta nel momento sbagliato e alla persona sbagliata? Ma torniamo al nostro tema. Intanto è necessario distinguere tra diagnosi e prognosi: riguardo alla diagnosi, il dovere del medico è quello di non nascondere o edulcorare, ma di spiegare, certamente nei termini più adatti e opportuni, al paziente e ai suoi parenti stretti, il suo quadro clinico. Diverso è il caso della prognosi, a proposito della quale, come ha scritto Umberto Veronesi il giorno successivo sempre sulla “Stampa”: “Il codice deontologico medico parla molto chiaro: ‘Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai elementi di speranza’.”

E’ evidente che quel primario ha avuto torto per il modo drastico con cui ha comunicato quella prognosi ( se è vero che si è espresso nei termini riferiti da Camon, ma non c’è motivo per dubitarne): “Certamente questa malattia (leucemia) ucciderà la signora nel giro di pochi mesi”. Altro che circospezione e terminologie non traumatizzanti! In questo caso il medico è venuto meno al suo preciso dovere di non escludere mai elementi di speranza; e meno male che i parenti dell’ammalata si sono rivolti altrove, risparmiandole così una sofferenza psicologica aggiuntiva. Quindi non è vero che il medico è tenuto a dire quanto tempo rimane al paziente, neanche se è il paziente a chiederlo: pur nei casi senza speranza non è deontologico togliere ogni speranza. E’ provato infatti che la disperazione abbassa le difese, e la speranza di guarire allontana, di quanto non è dato sapere, la fine di ogni sofferenza. Ma a questo punto si apre un’altra e ancor più complicata questione deontologica: fino a che punto può spingersi il dovere del medico di curare senza sconfinare nell’accanimento terapeutico? E fino a che punto è giusto prolungare le sofferenze di un malato terminale?

E’ una questione aperta e controversa, di fronte alla quale, in assenza di una normativa precisa sul fine vita e sul testamento biologico, la decisione finale spetta ancora, accertata la volontà del malato e dei famigliari, alla pietà e alla coscienza del medico curante.

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