Ri-conoscere le nostre emozioni


Ri-conoscere le nostre emozioni

Foto di Prawny da Pixabay 

Scrive Karla Mclaren [1]

Mi viene da ridere quando sento le persone dire ad altre che sono “emotive”.

Mi piacerebbe chiedere: “A quale emozione ti riferisci, ce ne sono più di venti! Sai almeno di quale aspetto dell’emotività stai parlando?”.

I dizionari offrono sia definizioni che sinonimi della parola “emotivo” e alcune sono molto gradevoli.È scritto che se siamo emotivi siamo anche consapevoli, ricettivi, passionali, re-attivi, sensibili e saggi.Queste sono belle qualità da possedere!

 

Tuttavia, emotivi sta anche per suscettibili, veementi, complicati, isterici, istrionici e disturbati.Queste qualità non sono così desiderabili.

Però, se guardiamo agli antonimi della parola “emozione”, all’opposto troviamo: indifferenza, noncuranza, apatia, distacco, calma, quiete, pace e immobilità.

Si tratta sempre di sinonimi della disconnessione sociale.

Essere senza emozioni equivale a essere disconnessi, indifferenti e in sostanza non disponibili per i rapporti.

L’essere senza emozioni non è una condizione da celebrare.

Le emozioni sono necessarie perché, anche quando sono scomode o considerate inopportune a livello sociale, sono parte della psiche, parte della rete neuronale, parte della socializzazione e parte della tua umanità.

[…] In una cultura che ondeggia fra reprimere le emozioni oggi e glorificarle domani, ridurre le nostre capacità empatiche è saggio; l’intero argomento è permeato da pericolo e confusione. […]È più facile fare finta di non essere stati feriti dall’insensibilità altrui; è più facile nascondere le nostre emozioni più oneste ed evitarle in altre persone.

L’unico problema è che noi abbiamo veramente bisogno delle nostre emozioni, non possiamo avere una quotidianità funzionale altrimenti.

Senza emozioni non possiamo prendere decisioni, non possiamo capire i nostri sogni e la nostra visione del futuro, non possiamo stabilire confini personali adeguati o essere capaci nelle relazioni, non possiamo identificare le nostre speranze o sostenere le speranze degli altri e non possiamo perfino trovare, o rapportarci, con i nostri più grandi amori.

Se è vero che, salvo rare quanto eccellenti eccezioni, ci allontaniamo dalle nostre emozioni entro i cinque anni d’età circa,[2] come possiamo meravigliarci poi se la conoscenza che ne abbiamo rimane a quel livello?

Ho già affrontato, in passato, l’argomento proprio analizzando quanto spazio si dia al riconoscimento delle emozioni nella scuola, se e quando, in qual modo si induca ogni alunno, bambino, ragazzo, giovane a ri-conoscere le proprie emozioni per apprendere a gestirle. I segnali che ancora oggi emergono con chiarezza, persino in condizioni di DAD o DIR (Didattica a Distanza o Didattica di Recupero) può apparire termine improprio, esagerato ma così non è e, per rendersene consapevoli, basterà riflettere sull’insistito invito, ammantato di forte modernità aperta al futuro, a maestri e docenti perché “insegnino le emozioni”, attribuendone la paternità ad un ignaro Daniel Goleman che nel suo tuttora splendido e poco noto Intelligenza emotiva, si adoperava a che i docenti assicurassero che ogni alunno divenisse capace di “ri-conoscere” le emozioni che provava. [3] Del resto chi potrebbe e come insegnare un’emozione dall’esterno?

È anche per questo che mentre cresciamo in conoscenza, progressivamente ci allontaniamo dalle emozioni che comunque inevitabilmente proviamo e soprattutto manchiamo di capacità di individuarle e ancor meno di gestirle. Se la scuola poco è riuscita a compiere in questa difficile direzione, nella famiglia, schiacciata da una realtà liquida destabilizzante e ad un tempo invadente, prepotente, non si vive atteggiamento di maggiore consapevolezza e autoconsapevolezza delle emozioni né tra gli adulti, né tra i figli.

           Un segno positivo c’è e non ci sentiamo di ignorarlo: in molti stiamo cominciando a comprendere che le emozioni non sono né da demonizzare, né da accogliere acriticamente bensì da accettare semplicemente in quanto ci sono familiari e per questo vanno meglio conosciute, richiedono spazio nel dialogo con noi stessi perché, come per ogni nostro limite o nostro punto di forza o virtù, attendono da noi che le plasmiamo perché solo allora apparterranno alla nostra identità. Siamo chiamati a gestirle come ogni altra qualità che desideriamo ci contraddistingua.

La vita è una commedia per coloro che pensano e una tragedia per coloro che sentono [4]è l’ esèrgo che Daniel Goleman ha scelto per il capitolo 2 [5] Anatomia di un “sequestro” emozionale. Proviamo a rileggerlo questo capitolo di non più di quindici pagine ancora così fortemente coinvolgente da indurci a ri-flettere su noi e non solo.  

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi


[1] Karla Mclaren, Il linguaggio delle emozioni, Unicomunicazione.it, 2020, Milano, in https://www.amazon.it/linguaggio-delle-emozioni-Karla

[2] ibidem

[3] Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, Milano 1999, p.303, Insegnare a scuola le emozioni distorta traduzione del titolo del sedicesimo capitolo: Schooling the Emotions in Emotional Intelligence, 1995, riferito a concetto ben diverso, sostenuto dall’autore, di “alfabetizzazione, ri-conoscimento delle emozioni”

[4] Horace Walpole

[5] Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, cit., pp.32-49

 

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