*LO SGUARDO DEL SOCIOLOGO SUI MEDIA SOCIALI: COSA POSSIAMO IMPARARE DAL PASSATO

Inviato da Stefano Agati

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Come ricorderete con l’avvento del coronavirus, l’isteria collettiva si è concretizzata inizialmente con episodi di minacce alle minoranze cinesi in Italia, e questo attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani o di alcuni di essi e alla loro vita collettiva. Una modalità che consiste nell’individuare una vittima o più vittime all’interno di un gruppo per poi spingerla ai margini di quel gruppo permettendo così di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno. Inizialmente un’altra reazione isterica al coronavirus è stata la presa d’assalto ai supermercati che ha origine da un’emozione primaria come la paura, degenerata però in panico.

Ma perché succede questo? A valle, cioè a diretto contatto con l’uomo della strada, l’informazione non manca, anzi è sovrabbondante e ridondante, ma spesso si tratta di un’informazione fuorviante e di scarsa qualità. I media, secondo il sociologo Ulrick Beck, per aumentare audience e vendite alimentano la paura collettiva del rischio o attribuiscono eccessivo risalto alle minacce. A monte, cioè prima del processo informativo, “né la scienza né la politica al potere sono nella posizione di definire o di controllare razionalmente i rischi” - dice Beck. Infatti la complessità di molte situazioni porta a divergenza di opinioni tra gli stessi esperti sulla gravità del rischio e sulla pianificazione delle procedure di sicurezza. La conseguente perdita di fiducia e di rispetto per i media, le istituzioni e gli esperti portano la gente alla consapevolezza predetta da Ulrick Beck: “viviamo in un mondo fuori controllo”, e spiegano almeno in parte gli atteggiamenti di smarrimento e di isteria collettiva che stiamo vivendo in questo particolare momento. La paura è quella sensazione di pericolo che proviamo di fronte a una minaccia. Come dice la storica Joanna Bourke nel suo libro dal titolo “La paura”: “uno spettro si aggira per l’umanità: lo spettro della paura”. Nasce così la paura di affrontare i “rischi” (sanitari, ambientali, economici, dello stile di vita, dei rapporti interpersonali) derivanti da una specifica azione, e la paura dei “pericoli” che invece dipendono da elementi esterni difficilmente controllabili.  Anche i rituali possono assumere importanza, la gente tendenzialmente ricorre ai rituali delle “narrative di controllo formali”, come protocolli, teorie della probabilità o procedure di emergenza, mentre attraverso le “narrative di controllo informali” le persone si rassicurano utilizzando simbologie e formule tipiche del mondo spirituale come ad esempio la preghiera o addirittura gli stereotipi e le modalità della scaramanzia.Oppure si verifica la reazione opposta, una sorta di desensibilizzazione, di dissociazione per non sentire più la paura, che si manifesta nella negazione del pericolo come ad esempio nelle movide o nello shopping natalizio.

Ma quanto è importante il ruolo dei media sociali oggi (e mi riferisco anche ai social  network) nella creazione del panico morale, nella diffusione di fake  news o aspettative nei confronti  delle  minacce come il coronavirus? 

Come dice il sociologo  Stanley Cohen: “Di tanto in tanto le società sono soggette a periodi di panico morale”.  Il concetto sociologico di “panico morale” nasce con l’opera di Cohen, Folks Devils and Moral Panics nel 1972. Nel caso del coronavirus ricordiamo la lapidaria ammissione del giornalista Piero Sansonetti sul ruolo dell’informazione nell’emergenza sanitaria per il Covid-19: “Noi giornalisti abbiamo provocato il panico”. Successivamente anche il Presidente del Consiglio italiano ha dichiarato: “E’ il momento di abbassare i toni, dobbiamo fermare il panico”, e sembrerebbe che la direzione generale della RAI sia stata redarguita in modo categorico: “basta allarmismi!”. A suo tempo è intervenuto il Ministero degli esteri che ha concepito un piano contro le fake news sull’Italia nel resto del mondo. In effetti si è compreso e si è intervenuti in ritardo per arginare le conseguenze della paura incontrollata diffusa dai media in Italia e nel mondo.

Questi fatti dimostrano come il concetto di “panico morale” sia attuale e concreto e continui ad essere considerato e studiato dai sociologi moderni (come la britannica Angela McRobbie)  per sottolineare il ruolo sostenuto dai mezzi di comunicazione (stampa, telecomunicazioni, social network) nell’influenzare atti devianti, considerando questo fenomeno in grado di alterare i meccanismi della percezione della gente, generando una sorta di “profezia che si autoavvera” in grado di alimentare panico e conseguenze di più ampia portata.

Cosa possiamo imparare dal passato e da questa emergenza, osservando il tutto con gli occhi di un sociologo? 

La memoria è la capacità di imparare dal passato, e rappresenta una risorsa per progettare il futuro, un meraviglioso strumento per elaborare la nostra esperienza umana. Ad esempio l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicò un documento di sintesi sulle azioni intraprese durante il picco della Sars, evidenziando anche le lezioni apprese sul versante scientifico. In questo caso un grande passo in avanti consisterebbe nell’abbandonare le pratiche zootecniche e veterinarie meno igieniche e più vecchie. Tuttavia nel caso del coronavirus la lezione non è stata adeguatamente recepita, in particolare nel mercato degli animali di Wuhan risulterebbe evidente che non sarebbero state adottate sufficienti precazioni sanitarie, quindi la consapevolezza raggiunta fatica a tradursi in qualcosa di concreto. Resta la tensione, la speranza e la fiducia che grazie alle nuove tecniche hi-tech la comunità scientifica mondiale possa fornire concretamente e velocemente gli strumenti per fronteggiare le minacce di questa realtà globalizzata. Ma negli errori del passato e del presente emerge il tema di fondo analizzato in questo intervento, che sembrerebbe avere poco a che fare con la scienza, cioè il ruolo sostenuto dai mezzi di comunicazione nell’influenzare atti devianti. Oggi è sempre più chiara la responsabilità di chi ha il potere di utilizzare l’informazione per orientare l’opinione pubblica e di come la comunicazione distorta di un singolo stato può creare distorsioni a livello mondiale ed importanti conseguenze alla salute pubblica e all’economia globale. Per imparare dal passato, il sociologo non può soffermarsi soltanto sull’esperienza e sulla trasformazione di essa, l’esperire deve divenire una prassi rivoluzionaria, un’attività che, prima di fondare il nuovo, non può che distruggere il vecchio (Benjamin W.), così come egli non può soffermarsi sul solo concetto di memoria collettiva: “Non si tratta più di rivivere le cose accadute nella loro realtà, ma di ricollocarle nei quadri […] nei quali la storia dispone gli avvenimenti, e di definirli attraverso ciò che li differenzia gli uni dagli altri” (Halbwachs M., 2001, 155). Si deve necessariamente ricordare la rapidità del mutamento sociale in cui questi aspetti sono inseriti e l’alterazione degli attuali modelli di organizzazione sociale, per sostenere i ritmi del cambiamento considerando le molteplici variabili implicate, come l’evoluzione dell’ambiente fisico, gli andamenti demografici della popolazione, la tecnologia, la cultura, il comportamento collettivo e i movimenti sociali.

 

BIBLIOGRAFIA

BECK U., I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino, 2000

BOURKE J., trad. di B. Bagliano, La paura, una storia culturale, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2007

COHEN S., Folk Devils and moral panics, MacGibbon and Kee Ltd, 1972

HALBWACHS M., La memoria collettiva, tr. di P. Jedlowski e T. Grande, Unicopli, Milano, 2001

 

*STEFANO AGATI, Relazione al Convegno Nazionale ANS del 19/12/2020

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