RI-EDUCARE LA PAROLA. Urgenza e priorità pedagogica

Inviato da Nuccio Salis

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Le parole non sono semplicemente suoni. Sono contenitori semantici che veicolano concetti, costrutti e visioni di mondo. Nella famosa torta di Mehrabian (che io stesso ho insegnato in alcuni miei corsi) si attribuisce alla parola indicativamente il 7% della valenza comunicativa nell'ambito del processo di trasmissione/ricezione di un messaggio. Non sono mai stato del tutto d'accordo. E inoltre: dove sono i calcoli matematici e riproducibili su questa teoria? Ma centriamo il focus principale della questione: il progressivo impoverimento del vocabolario, segnalato più volte anche da illustri studiosi di linguistica, è un fenomeno di cui si possono osservare le ricadute in termini di svilimento di strumenti interpretativi del mondo, sia interiore che esteriore.

Le parole definiscono e ri-definiscono l'orizzonte della propria visione di sé e della dimensione di cui facciamo parte. Non sono soltanto espressioni verbali che si limitano a riportare e descrivere la narrazione degli eventi, ma contribuiscono a crearla, a modellarne una diversa rispetto a quella osservata. Esse, dunque, configurano il sistema rappresentativo interno del parlante, sollevandosi ad una fondamentale funzione sia sociale che intrapsichica. Il celebre psicologo russo Vygotskij rimarcò la funzione del linguaggio e dell'apprendimento verbale nel bambino come condizione necessaria e preliminare per sviluppare il linguaggio interno sottoforma di pensiero. Questo stretto legame fra parola e pensiero è stato intuito fin dagli albori della filosofia, proseguendo fino ai giorni nostri grazie a straordinarie figure storiche nell'ambito educativo che ne hanno implementato tale principio a favore di una maieutica popolare. Si pensi a Freire, Dolci, Capitini. La parola rimane una forma altamente sofisticata di contatto e interconnessione. Può essere magica, può guarire, può ridimensionare una intera visione delle cose, può perfino uccidere. Non è affatto un caso se, come hanno messo in evidenza autorevoli osservatori dei fatti sociali, le élite hanno da sempre posseduto un vocabolario allargato, contrapposto ad un sistema linguistico ristretto che connotava l'appartenenza sociale a ceti meno abbienti. La parola non è neutra. Chi la possiede ha un vantaggio. Ha la possibilità di generare arbitrariamente i giudizi altrui sul mondo, di decidere come la collettività deve leggere la narrazione sociale, e quali reazioni dovrà manifestare. La parola è scettro, trono e corona, e mediante essa è possibile plagiare oppure compiere opera di liberazione. In essa risiede certamente la potenza dell'origine. Dopotutto, nella nota versione della genesi biblica, Dio è identificato con il Verbo. La parola è Principio di tutte le cose. Altro che 7%! La progressiva e sconcertante riduzione della capacità di rapportarsi alle parole, sta non a caso coincidendo con un generale e crescente impoverimento del pensiero critico, dell'immaginazione, di un dizionario delle emozioni. La profondità e lo spessore dei concetti sono sempre più sostituiti da faccine, abbreviazioni, slang, spazi smart e ultrasintetici per esprimere un proprio pensiero rapido, adeguato al diffuso livello di attenzione sostenuta che precipita di anno in anno, come registrato e misurato dalle neuroscienze. Uno scenario di questa fattura, caratterizzato dalla brevità e dalla noia verso testi di lunga articolazione (come questo, che quasi nessuno leggerà per lo stesso motivo), è da considerare un contesto con una precisa valenza politica e culturale. Si può scoprire e constatare questo fenomeno ogni volta che un modo di essere, di esprimersi e di valutare ogni vicenda, non risponde ai comuni codici largamente condivisi e turba le aspettative ed i canoni mentali con cui abitualmente la maggioranza si orienta nel mondo per validarne le credenze. Questa triste circostanza si verifica ogni qualvolta ci si incontra con la visione più popolare e consolidata della realtà, la quale non a caso viene il più delle volte difesa a mezzo di una retorica inflazionata e replicata come un disco incantato. Frasi fatte, slogan, luoghi comuni, espressioni ripetute a pappagallo sono gli espedienti verbali a cui si ricorre sempre più, poiché si sposano con la condizione attuale dell'umano alienato: un essere in corsa, trafelato e disimpegnato da tutto ciò che gli appare "difficile", che accetta acriticamente di farsi svuotare e impoverire per sottoscrivere tacitamente un accordo in cui egli delega ad altri l'ingombrante funzione di pensare e di comprendere, riscuotendo in cambio la permanenza nella zona di comfort. Si tratta in fin dei conti di un patto dove tutti vincono, ma anche, soprattutto, un compromesso dove tutti perdono! Riprendersi le parole, rivendicare la loro funzionalità pragmatica nell'ambito comunicazionale così come in quello della riflessione e della concettualizzazione è un'operazione nobile, altamente sopraffina. Ti daranno del "filosofo", con quella tipica accezione sinistra di chi si accontenta di guardare le ombre e di scambiarle per eventi concreti. Noi continuiamo controcorrente ad affinare una delle armi più potenti di riscatto ed emancipazione: la parola. Attraverso la stessa è possibile costruire quel legame d'onore che travalica le scartoffie e le formalità rituali di un mondo governato da burocrati e sofisti. La parola è resistenza a questo stato di collettivo annichilimento. Ciascun filosofo che non si vergogna ad esserlo saprà usare sapientemente questo mezzo eccellente, nella consapevolezza che, come ci ha insegnato Kahlil Gibran, le parole non sono meri vocalizzi, ma dirette messaggere dei nostri pensieri. Si può di conseguenza evincere l'importanza della connessione pensiero/parola come urgenza pedagogica diffusa, diretta al recupero del suo potenziale ruolo "coscientizzante" (parafrasando Freire). Impegno di non poco conto per chi si assume responsabilità educative. dott. Nuccio Salis (pedagogista clinico, counselor socioeducativo, formatore analitico-transazionale)

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