Abitare il disincanto del Postmoderno


Abitare il disincanto del Postmoderno

 

           Definire l’epoca in cui si vive è sempre stato molto difficile, al punto che non raramente epoche più o meno gloriose della storia non sono state nominate da chi le ha vissute, ma dai posteri. Così gli Umanisti del sec. XV, riconoscendo la loro diversità rispetto al mondo classico di cui si inebriarono, definirono Medio Evo quel lungo millennio che dall’Evo Antico li divideva e che fino ad allora non era stato individuato come epoca a sé stante.

Definire implica aver colto le peculiarità dell’oggetto della nostra indagine, qualunque esso sia e se è il mondo, la realtà di un ampio contesto, tener conto di ciò che è visibile non ci basta per qualificarlo; occorre cogliere quanto c’è di sommerso che condiziona quelle punte emergenti, occorre che siamo capaci di avere mente sgombra da convinzioni e limiti che potrebbero deformare il nostro sguardo. Più facile è, e lo facciamo con dovizia di particolari, segnalare ciò che non accettiamo, ciò che ci sarebbe piaciuto ma nessuno di chi potrebbe provvedere, a quanto sembra, si adopera a realizzare.

 

Su queste riflessioni porta immediato scompiglio una diffusa definizione dell’epoca in cui viviamo come quella del Postmoderno. In fondo, analizzando e conoscendo, possiamo convenire che sia definizione appropriata, ma è assolutamente certo che in una prospettiva storica e umana la sentiamo stridente, caustica, disvelatrice  di ciò che maggiormente temiamo e forse stiamo provando a combattere.

Non si tratta di definizione di un’epoca, bensì della definizione di una non-epoca, di un’epoca che non esiste in autonomia se non come il seguito –post–  della precedente. Elencare differenze e distanze più o meno evidenti non alleggerisce la sentenza che all’improvviso ci toglie la certezza che ogni società di viventi ha  pieno diritto di possedere: avere una identità che la caratterizza in quanto presente e la più idonea a costruire il futuro.

Sentenza grave è questa che con una parola, scelta non a caso, ha anche gridato al mondo intero che oggi siamo incapaci di futuro, il che sembrerebbe ridicolo e paradossale per l’epoca della tecnologia avanzata e tuttavia, in effetti,  anche dell’obsolescenza programmata.

È evidente che il problema non è mera disquisizione filosofico-letteraria, è un grido d’allarme che ogni adulto è chiamato a valutare per agire e trovare correttivi perché l’idea di futuro ri-emerga nelle menti e nei cuori soprattutto delle giovani generazioni nutrite a frammenti di immanenza.

Ogni relazione d’aiuto, segnatamente quella educativa, è bene che tenga conto di questa ben articolata interpretazione del nostro mondo, così come tiene in conto la descrizione di Zigmund Bauman della nostra liquida società.

Il counselor ha necessità di esperire il contesto della nostra società perché il sostegno che può offrire ad ogni persona che gli chiede aiuto sarà efficace solo nella misura in cui terrà concretamente conto del contesto.

Postmoderno è termine usato per connotare la condizione antropologica e culturale conseguente alla crisi e all’asserito tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, entrate circa dagli anni 1960 in una fase caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche. In connessione con tali fenomeni e in contrasto con il carattere utopico, con la ricerca del nuovo e l’avanguardismo tipici dell’ideologia modernista, la condizione culturale postmoderna si caratterizza soprattutto per una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo, e per l’abbandono dei grandi progetti elaborati a partire dall’Illuminismo e fatti propri dalla modernità. È così che il Postmoderno ha dato vita, sul versante creativo, più che a un nuovo stile, a una sorta di estetica della citazione e del riuso, ironico e spregiudicato, del repertorio di forme del passato, in cui è abolita ogni residua distinzione tra i prodotti ‘alti’ della cultura e quelli della cultura di massa.

In questo contesto, un grande compito ci attende: abitare il disincanto che da questa scomoda realtà ci giunge, disincanto inteso non come liberazione da un incantesimo (che sarebbe percezione sana e segno di crescita) ma condizione di chi è ormai incapace di nutrire la forza dell’illusione, la stessa che alimenta creatività e l’energia di costruire un’ipotesi di futuro.

Trovo irrinunciabile porci una domanda: come si può abitare una condizione così incerta? Abitare, come frequentativo di habēre, – dicono i filosofi – rappresenta l’azione propria dell’uomo che riflette e che non subisce semplicemente la vita; così l’uomo abita la propria casa perché non si limita a subirne l’esistenza e le fatiche che comporta. In questo è il senso dell’abitare,  il prendersi cura, di sé e degli altri, in una sorta di osmosi propositiva tra noi e l’altro da noi, tra noi e il mondo esterno, il/i contesto/i.

Nel 1979 l'intellettuale francese Jean Francois Lyotard usò per primo il termine postmodernismo in The Postmodern Condition per significare come gruppi diversi di persone utilizzassero il medesimo idioma in modi differenti e ne dedusse  che tutte le interpretazioni convivono e sono su uno stesso piano. Questo confluire di interpretazioni costituisce l'essenza del postmodernismo e inappropriato dunque è in base a tale premessa criticare come negatività ciò che nel postmoderno è contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha inquinato il mondo accademico.

Scrive Emiliano Zappalà:

Parlando di Postmoderno, un minimo di indeterminatezza è inevitabile perché essa è interna, non tanto al discorso critico del singolo osservatore, quanto piuttosto all’oggetto stesso della ricerca. Tradotto rozzamente, le teorie Postmoderne (aggettivo sostantivato) non sono mai conclusive, perché il metodo stesso di ricerca e di analisi postmoderno (aggettivo semplice) fa della “non conclusività” un suo punto di forza e una sua conquista. Quasi tutti, dai detrattori ai più accaniti sostenitori, convengono di buon grado: Postmoderno è una pessima definizione. Troppo provvisoria, sfuggente, improbabile, per certi versi quasi tautologica. Eppure, allo stesso modo, anche se con gioia molto meno condivisa, la stragrande maggioranza dei critici accetta il fatto che oggi non esista una definizione migliore per parlare della società in cui viviamo e per raggruppare le teorie filosofiche che l’hanno contraddistinta. La Postmodernità dunque - diciamolo ancora una volta - è l’epoca in cui viviamo. L’epoca in cui prende piede il modello economico post-industriale teorizzato da Daniel Bell negli anni Cinquanta (The coming of Post-industrial Society). Emiliano Zappalà, 31/08/2012

 

Il pensiero postmoderno è legato al concetto di "fine". Siamo ad un momento di svolta, nel momento in cui si passa dall'illusoria sicurezza moderna a qualcos'altro. Qualcos'altro di misterioso e sconosciuto. La fine di cui parliamo è la fine della ricerca dell'Essere, la fine delle verità totalizzanti, la fine del progresso, dell'idea di tempo e storia come processo lineare, la fine del logocentrismo, della ragione come elemento «fondante» del pensiero. Ciascuna fine porta dietro delle morti e, per un po' di tempo, dei lutti; la morte di Dio, della Metafisica, delle ideologie, della fiducia nelle metanarrazioni. Ma, come sappiamo o crediamo di sapere, una fine segna sempre un nuovo inizio. E a questo punto il senso ultimo di quel «post» di postmoderno dovrebbe essere più chiaro; «post» indica una resistenza. Essere «post» significa essere arrivati alla fine, essere sprofondati dentro le macerie ed essere sopravvissuti, aver retto l'urto. Emiliano Zappalà 10/10/2012

Più di ogni altra cosa il postmodernismo è stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Il postmodernismo è un'offensiva non soltanto all'interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante: impegnarsi a sfidare il ragionamento prevalente e predominante, permette di dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati.

Se il postmodernismo ha aiutato la società occidentale a comprendere la politica della differenza, potrà correggere le iniquità finora ignorate?

Se sappiamo guardare oltre scopriamo [di desiderare di essere] riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci. Se il problema per i postmodernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell'attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare. (Edward Docx, Repubblica, 3 settembre 2011)

Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dell’intelligenza, dell’autenticità, dei valori.  Sono forse già elementi in aperto conflitto con il postmodernismo? Forse il postmodernismo è alla fine, e, se così fosse, perché? Alla prossima riflessione.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

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