c'era un volta la...vivacità dei bambini


c'era un volta la...vivacità dei bambini

 

            Non inganni l'incipit, la fiaba non abita qui. La vivacità dei bambini, un dono certamente impegnativo e tuttavia efficacissimo motore di sorriso e rinnovate energie interiori per ogni adulto, è ormai confinata nel passato; oggi non è reperibile, né forse saremmo in grado di accoglierla.

Viviamo in un mondo che ignora (forse teme?) la vivacità, intesa come creatività spontanea, curiosità, voglia di conoscere ed esperire, un mondo di cui cogliamo incertezze, malesseri e degrado, che sappiamo essere quasi del tutto depauperato di forze, di quelle dell'immaginazione, della volontà, della motivazione, dell'accettazione del cambiamento, del buon senso, insomma un mondo che ha reciso ormai ogni legame con quell'impossibile che può diventare, se tenacemente inseguito, possibile, con la fiaba, escludendosi irrimediabilmente da quel sano equilibrio tra realtà e magìa, concretezza e sogno che nella fiaba sempre restano interconnesse e reciprocamente legittimate e attive.

            Sono tanti gli indizi e i segnali di allerta che percepiamo nella nostra vita e nel contesto che ci attornia e opprime, ma difficilmente siamo disponibili a coglierli perché ci preoccupa sentirci diversi, non-omologati e piuttosto che ascoltar-ci, se mai lo abbiamo appreso, ci industriamo a disimparare che cosa significhi il dialogo interiore,a ignorare quali risvolti importanti abbia per il  nostro equilibrio: meglio sentirci con e come gli altri. Se questa vicinanza poi, come quasi sempre accade, è aleatoria, più apparente che sostanziale ci educhiamo ad accontentarci anche di questo, pur di non dover durare la fatica di affrontare la vita, l'altro, gli eventi e le relazioni nuotando controcorrente.

            Da questa reiterata abitudine siamo guidati ad accettare anche ciò che non vorremmo e dunque abbiamo allenato l'abilità ad attribuirne ad altri e altrove le responsabilità: se la qualità della vita peggiora, se i valori fondanti dell'umanità continuano, al di là delle belle intenzioni e delle sovrabbondanti parole, ad essere ignorati, non ci sentiamo in alcun modo responsabili e, anzi, abbiamo alcune frecce al nostro arco che testimoniano la nostra buona fede, la nostra mitezza, il nostro impegno nel lavoro, ecc...

            Neppure ci sentiamo responsabili  di come stanno crescendo le nuove generazioni e siamo ben concordi, noi adulti e persino educatori e formatori, che i bambini di oggi hanno problemi che vanno curati: sono iperattivi, non stanno mai quieti, non prestano attenzione che per pochi minuti a ciò che viene detto loro, sono aggressivi e al tempo stesso svogliati, insomma o sono troppo...o troppo poco e al lamento corale si aggiunge una spasmodica quanto inesperta (in quanto mai esercitata) voglia di contenimento e di guarigione che puntualmente verrà affidata a esperti ...clinici. Per questo, l'aumento insolitamente rapido di "sindromi di iperattività" negli ultimi anni acuisce l'esigenza di avere sostegni e pareri di esperti esterni piuttosto che indurci a  ragionare sulle possibili nostre responsabilità educative.

            Qualche voce autorevole, in nome della pedagogia, prova a sostenere che quella che oggi viene definita iperattività del bambino, un tempo si chiamava "vivacità" , cioè la sana vitalità del bimbo che proprio per questo andava tenuto (coccolato) e contenuto, andava progressivamente avvicinato a piccole e fondamentali norme che l'adulto per primo si impegnava a fare proprie. Che tali voci vengano ignorate certamente non è bene e tuttavia il nodo problematico è altro, perché in realtà non credo affatto che iperattività e vivacità possono essere intesi come sinonimi. Non lo sono per molteplici elementi di diversità e in sintesi la mia convinzione è che mentre la vivacità dei bimbi è espressione di una naturale interiore voglia di conoscere, vedere, toccare, l'iperattività è manifestazione di agitazione mai risolta, di impossibilità a stare. Vivacità è attenzione al contesto è curiositas, gusto e proiezione a conoscere a far proprio, a possedere e capire, iperattività è inquietudine ansiosa, aliena da autoregolazione e da autocontrollo, dal riconoscimento dei propri o desideri e dei desideri dell'altro.  

            Ciò che dovrebbe ancor più allarmarci è che l'iperattività è indotta, anche nei bimbi. Il termine ci suggerisce ripulsa, ci rimanda ai persuasori occulti di cui Packard tra i primi parlò (alcuni decenni orsono), ci rimanda a quei bisogni indotti che sappiamo essere strumento di eccezionale efficacia per chi ha già grande potere condizionante e terribile vulnerabilità per ciascuno di noi ridotto a persona a utente-consumatore.

            Questa stessa repulsione credo che dovremmo sentire di fronte al comportamento iperattivo di un bimbo, di una ragazzo e forse di ciascuno di noi. Noi abbiamo contagiato e continuiamo a contagiare le nuove generazioni, prima ancora che nascano, con la nostra iperattività, con il modello di efficienza e prestanza immediata e continua, con il multitasking, con il nostro agire per agire senza averne colto il senso. Abbiamo noi adulti creato le condizioni ambientali che educano (piegano) il bimbo ad una vita frenetica, densa di impegni e scadenze, imitazione perfetta di quella degli adulti che -lo sappiamo- conduce allo sfinimento e allo stress. L'iperattività dell'adulto è una scelta (anche se spesso inconsapevole), l'iperattività del bimbo è una costrizione indotta dall'esterno, frutto di una mancata corretta comunicazione con le figure d'accudimento e con chi ha responsabilità educative. È iperattività nel bimbo avere difficoltà a rimanere seduto e fermo al proprio posto, muoversi senza un preciso scopo, sfidare l'altro piuttosto che se stesso nel gioco, stancarsi/annoiarsi prima di portarne a termine almeno uno tra tanti giochi che comincia, non riuscire a mantenere l'attenzione neppure per ciò che lo ha interessato.

Impariamo a osservare e a porci qualche domanda. Osserviamo quante sono le iniziative richieste dal bambino e quali sono suggerite-indicate-proposte-imposte, come ad esempio le attività pomeridiane, da mode diffuse tra gli adulti; osserviamo se e quanto il bambino sta imparando a gustarsi almeno un gioco, a provare interesse per un giocattolo, per un'esperienza. Chiediamoci quante volte ci accade di incontrare il suo sguardo, se ci accade di restargli vicini in silenzio pronti ad ascoltarlo, a leggere i suoi movimenti; chiediamoci quando è accaduto che abbiamo cominciato a privarlo dei suoi tempi per mantenere i nostri, quante volte, ancora cucciolo, lo abbiamo trascinato in luoghi affollati, di giorno, di sera pur di non rinunciare alla pizza con gli amici; chiediamoci quante volte abbiamo anticipato un suo possibile desiderio e quante abbiamo atteso che fosse lui a chiedere e, proprio perché potesse apprezzare il gusto dell'attesa, abbiamo un poco dilazionato nel tempo la soddisfazione di quel suo desiderio che avevamo accolto. Osserviamo e poniamoci domande su come stiamo costruendo la nostra relazione con lui e ci renderemo consapevoli che ciò che conta in primis è la relazione che stabiliamo con il bimbo e una relazione  di fiducia e affidamento non sarà compromessa neppure dai tempi stretti che la vita lavorativa impone all'adulto.

Certamente esiste l'iperattività patologica che va osservata e curata da specialisti, ma è comunque importante che ogni adulto e ciascuno di noi nel ruolo di counselor operi con prudenza mai dimenticando che l'iperattività è spesso effetto della condizione, odiata e al tempo stesso cercata da quasi tutti gli adulti, i quali ne sono vittime e più o meno consapevolmente la infondono alle nuove generazioni. È evidente che la vera cura è la prevenzione: pre-venire intervenendo su di noi e, per quanto possiamo sul contesto, sulle nostre abitudini, i ritmi delle nostre giornate soprattutto se siamo a contato con chi, per naturale emulazione, tenderà a carpire da noi ciò che più lo affascina.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

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