CONFLITTI DI VALORE NELLA PRATICA DI COUNSELING. Riflettere ed agire sulle discrepanze

Inviato da Nuccio Salis

conflitti personali

Le pratiche del counseling possono essere molto spesso soggette a fenomeni che riguardano situazioni di conflitto. Il riferimento richiama quelle circostanze in cui si verifica una dicotomia fra almeno due aspetti che entrano fra loro in collisione.

Si tratta a volte di veri e propri dilemmi che lo specialista dell’aiuto si trova a dover affrontare, nel tentativo di gestirne le incongruenze e di non pregiudicare l’intervento che conduce a favore dei soggetti presi in carico.

Una buona prassi operativa non può illudere se stessa di procedere in modo lineare e senza difficoltà. Oltre ad un atteggiamento di sobria flessibilità, da applicare nel contesto della relazione di aiuto, è necessario prevedere una possibile condizione nella quale almeno due elementi si ritrovano in un rapporto oppositivo e di contrasto.

 

Una tale contingenza potrebbe anche manifestarsi in modo del tutto improvviso. Si tratta di momenti in cui si realizza la difficoltà di poter rendere il più possibile compatibili fra loro diverse istanze di opposta valenza. Si possono citare esempi che riguardano alcune fra le principali divergenze.

Forse la più nota riguarda la marcata differenza fra l’esigenza avvertita da terzi nell’aver individuato un soggetto da seguire in un percorso di counseling, e la non piena adesione da parte dello stesso, di condividere la necessità di affrontare un itinerario di conoscenza e potenziamento di sé.

Ciò ricorre spesso e volentieri nella modalità di counseling indiretto, in cui cioè il cliente giunge allo spazio della consulenza in quanto sollecitato ed invitato da altri soggetti, con il compito di aiutarlo a riflettere su comportamenti considerati sconvenienti o sgraditi nell’ambito sociale del cliente medesimo.

Può accadere nell’ambito scolastico, nei confronti di uno studente valutato come indisciplinato, oppositivo o con basso rendimento nell’ambito didattico e dell’apprendimento. Potrebbe anche trattarsi di un giovane spinto dalla famiglia a parlare di un problema o di un disagio a cui non riesce a fronteggiare o a cui non sembra capace di dare un nome.

In ciascun caso, il counselor ha il compito di valutare il livello di motivazione iniziale del soggetto, affinché il processo che viene previsto sia condiviso con un sentito grado di partecipazione e volontà collaborativa. In mancanza di tali elementi, infatti, il cliente non potrà che manifestare rifiuto e procedere al sabotaggio di ogni proposta favorevole al suo cammino esperienziale.

Personalmente ho constatato come tali discrepanze siano quasi sempre presenti, e che la possibilità del conflitto fra le variabili che sostanziano l’attività di counseling, siano da considerare opzioni probabili che impegnano ad un lavoro di seria mediazione e approfondita riflessione.

D’altra parte,  ciò era l’esempio tipico del conflitto fra mandato sociale e bisogni della persona. Si verifica fattispecie ogni volta che la richiesta che ha motiva gli incontri di counseling proviene da soggetti che hanno la convinzione di curare gli interessi della persona inviata al colloquio. In tal caso, la fonte extrapersonale responsabile dell’invio, anticipa e descrive i bisogni dell’utente, senza poter offrire la garanzia di una lettura obiettiva, completa e matura. In pratica, l’orizzonte valoriale del “mandante” (persona o soggetto istituzionale) si palesa come estraneo al quadro di riferimento percettivo e interpretativo del potenziale cliente; circostanza che può rendere l’individuo avverso al tentativo di trattamento.

Tale insieme di fattori impegna il counselor nel tentativo di conservare ed agire dentro una cornice di neutralità e di ascolto incondizionato, resistendo a prendere le parti dell’uno o dell’altro agente sociale. Ciò non sempre è facile. Specie se l’operatore, per esempio, è inserito dentro un organico in cui svolge la funzione di accoglienza dei cosiddetti “casi difficili”, che minano cioè al generale assetto normativo e all’unanime regolamento di un organizzazione o istituto. In questo caso, qualora ravvisasse delle legittime istanze anche da parte dell’utente demandato al compito di chiarire il suo disappunto, egli si potrà sentire conteso fra la funzione di contenimento affidatagli dall’istituzione e dalla tendenza anche ad accettare e comprendere le richieste dell’individuo che è stato sollecitato a giustificare la propria condotta, spinto cioè a definire se stesso e la propria posizione assunta all’interno della situazione analizzata.

Il counselor ben formato ed esperto, dovrebbe nel frattempo aver già imparato a tenere distinta e separata la sua visione di mondo da quella proposta dal cliente, il quale possiede già un suo vissuto, con il quale si manifesta come portatore di diversità, di un’identità “altra”, volta ad esprimere atteggiamenti e dichiarazioni che possono sconvolgere l’ordine delle idee e delle rappresentazioni in seno allo specialista come persona.

È consuetudine di un professionista preparato resistere alla tentazione di accogliere il punto di vista dell’altro da sé per riceverne approvazione e stima. Una tale condivisione, se in un primo indefinito riferimento temporale può creare una suggestione di alleanza, fiducia e affiatamento fra counselor e cliente, verrà in seguito depauperata in forza di una situazione inautentica e artificiosa.

Forse lo stesso atteggiamento è da tenersi nei confronti di chi premia lo specialista inserendolo nel proprio personale. Non è detto, cioè, che le istanze perpetuate dal contesto di riferimento siano sempre unilaterali e incontrovertibili, e che non possano essere soggette ad interpretazioni alternative. In questo caso il counselor dovrà realmente riuscire a dare il meglio di se stesso, nel tentativo di fare sempre gli interessi del cliente e della disciplina scientifica a cui appartiene. Egli dovrà assumersi la responsabilità di conciliare gli opposti, senza scegliere comodamente quella funzione che spesso gli viene implicitamente assegnata come se dovesse sempre realizzare le aspettative di chi lo investe di quel ruolo, remunerandolo.

Nella mia esperienza personale sto avvertendo di come ciò capiti più frequentemente di quanto non si creda. Una madre che esplicita i bisogni del figlio, senza che questo venga interpellato per mostrare eventualmente l’intensità di accordo o disaccordo. Oppure ancora un dirigente scolastico o un insegnante che desiderano ‘disciplinare’ magicamente uno studente riottoso o problematico.

 Il counselor, però, soprattutto mediante la sua azione, dovrà far intendere e dimostrare che egli non è un soldatino di piombo obbediente solo a chi lo paga, non è una sorta di poliziotto che tutela e conserva l’ordine sociale. La sua funzione, difatti,  non può coincidere con l’adesione passiva rispetto ad un compito affidatogli da terzi. Egli dovrà far comprendere che la possibilità di revisionare criticamente gli eventi, mettendo in discussione il sistema, è un’opzione non soltanto accessibile ma addirittura auspicabile, se davvero si desidera crescere sotto il profilo esperienziale, umano e scientifico.

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