FORMARE L’INTELLIGENZA SOCIALE: l’importanza del “saper essere”

Inviato da Nuccio Salis

intelligenza sociale

Un percorso di sviluppo, se vuole puntare all’evoluzione integrale della persona, deve saper espandere il valore del “saper essere”. Cogliendo la globalità dell’individuo, è possibile indirizzare il medesimo verso piani e scelte di vita che lo rappresentino, che ne qualifichino la sua identità, che offrano compimento ai suoi progetti, con gli annessi principi che ne ispirano le azioni.

Molto spesso, certi percorsi di promozione della persona sembrano invece perdere la rotta, dimenticandosi del principio cardine della centralità del soggetto e accantonando quella visione olistica che le scienze umane hanno col tempo recuperato.

È verificabile come i processi educativi tradizionali, siano essi formali o non formali, risultino molto spesso rigidamente ancorati alle strutture socio-culturali del contesto di riferimento, le quali, tendenzialmente, concedono una innegabile priorità ad un “sapere” da assorbire in modo acritico e nozionistico, e ad un “saper fare” orientato esclusivamente all’acquisizione di abilità spendibili nel settore produttivo. In questa ottica, la dimensione del “saper essere” è oltremodo sottostimata, delegata alla vita stessa o alle scelte identitarie del singolo. Ciò, sembrerebbe, nel nome di una libertà dell’agire, spesso utile soltanto a mascherare l’incapacità di fornire rotte e orientamenti di valore, ma che al tempo stesso fornisce un buon alibi al vuoto di cultura e di progettualità.

 

Questa marginalizzazione dell’area del “saper essere”, sembra rispecchiare la nota distinzione storica fra cultura classica e sapere professionale, ideata durante il regime fascista dal filosofo Giovanni Gentile, nel 1923. Tuttavia ancora oggi, seppur a seguito di cambiamenti epocali, revisioni, approfondimenti e scoperte nell’ambito pedagogico e didattico, persevera tale modello dualistico, classista, obsoleto e conservatore, funzionale soltanto al mantenimento di un sistema che cambia tutto per non cambiare nulla. Da una parte il “sapere”, che secondo l’idea di origine è da destinarsi riservatamente a coloro i quali si formeranno come classe dirigente, e dall’altra il “saper fare”, che punta allo sviluppo e all’espressione di competenze manuali, concrete, per forgiare la forza produttiva che mantiene lo status quo dei precedenti. Fra questi, il “saper essere”, ovvero il terzo incomodo, inviso all’interno di questa struttura, perché ne disturba l’intero impianto portante. Il “saper essere”, infatti, richiede l’espansione e la maturazione di abilità prosociali, mira a consolidare le competenze comunicative nell’ambito interpersonale, e potrebbe rendere cioè, da una parte troppo sensibili ed attenti alle istanze del prossimo, dall’altra offrirebbe occasioni e spunti per trovare concordia, unità, riscatto e svincolo dalla dipendenza. Va da se che in un sistema concepito per la conservazione, ed assoggettato alle logiche materialiste del mercato, il “saper essere” costituisce un virus troppo pericoloso da immettere nelle strutture fondamentali del sistema. Esso, infatti, nel modo con cui è organizzato, non può permettersi né dirigenti sensibili né tantomeno lavoratori consci della loro condizione e spinti verso una possibile emancipazione.

Il “saper essere”, semmai, può trovare posto laddove il danno è ormai irrecuperabile, cioè dove lo sfaldamento delle relazioni sociali è oltre misura degenerato. In questo caso, tale presupposto può essere contemplato, addirittura presentato come progetto innovativo, teso alla riconquista di sé, all’autodeterminazione e alla capacità di tessere rapporti costruttivi, impegnativi e carichi di significati.

Certo, bisogna pur ammettere che il “saper essere” impone riflessioni più faticose, circa i contenuti e le modalità di insegnamento/apprendimento attraverso le quali dovrebbe essere giustificato e presentato.

Più sfumato e indefinito rispetto al “sapere”, in quanto questo è un insieme di nozioni cristallizzate dalla storia e dalla tradizione, è anche più incerto rispetto al “saper fare”, forte della tangibilità e della fruizione funzionale delle invenzioni e delle innovazioni tecnologiche. Eppure il “saper essere”, per sua natura, non propone una collocazione in termini di priorità, ma una visione orizzontale ed integrata, circa l’insegnamento di queste tre dimensioni. Tutte sono indispensabili, e insieme costituiscono la garanzia di un’idea unitaria di uomo. Il “saper essere” dovrebbe riguardare tutti, anche nel caso di una distinzione netta come quella risalente al regime totalitario.

Ciò che rappresenta una sfida tanto difficile e quanto avvincente, riguarda essenzialmente ai punti salienti che dovrebbero comporre un credibile e proponibile disegno formativo di un percorso umanistico caratterizzato anche (e forse soprattutto) dalla dimensione del “saper essere”. In pratica, ciò a cui si dovrebbe dare autorevole risposta, sia teorica che operativa, per legittimare la presenza del “saper essere”, si riferisce al dare spessore scientifico ed utilità sociale ad un progetto che include una cura appropriata nella formazione del Sé.

Quindi, la domanda da formularsi è: perché è indispensabile accogliere a pieno merito la dimensione del “saper essere”, nel progetto educativo di un qualunque individuo facente parte di una collettività?

Mi viene da prendere spunto dalla vicenda della scuola sperimentale di Mirto, fortemente voluta dal sociologo umanista Danilo Dolci, durante gli anni Settanta. Nel territorio di Partinico (PA), infatti, fu fondata in quegli anni una scuola per bambini dai 4 ai 6 anni, che proponeva ed impiegava metodologie educative e didattiche allo scopo di mettere al centro la promozione del “saper essere”. Imparare a comunicare, costruire rapporti sociali, interrogarsi, scoprire bisogni, far emergere desideri spontanei, riconoscere diritti, esercitare la critica, risolvere conflitti; erano questi gli obiettivi della scuola, peraltro in linea con lo spirito dei Decreti Delegati appena approvati dalla Repubblica Italiana. Gli strumenti dialogici della maieutica furono applicati coinvolgendo a pieno titolo i genitori dei bambini, generando un clima partecipante e sollecitando una sentita responsabilità educativa. La formazione scolastica offriva modelli di relazione piuttosto estranei a quelli comunemente diffusi, soprattutto nelle famiglie. I bambini imparavano a gestire la reciprocità nei rapporti, mettendo in discussione il concetto di potere e di dominio. Ben presto si resero conto della discrepanza fra i modelli di relazione a cui venivano educati e le tipologie comunicative osservate fuori da quel contesto di apprendimento. Essi, come testimoniato dallo stesso Dolci, cominciavano a domandare “ma perché se qui decidiamo tutti insieme, a casa comanda sempre papà?”

La centralità del “saper essere” affiorava in modo deciso. La priorità assegnata alla dimensione umana puntava a formare cittadini liberi e consapevoli, avulsi di spirito partecipativo e democratico, costruttori di rapporti e di significati ed attenti all’interesse pubblico.

Ma una società competitiva non può permettere un tale margine di emancipazione e coscientizzazione, e per tale ragione la scuola subì da subito operazioni di boicottaggio e bocciatura ufficiale, da parte di commissioni incaricate dal Governo, prima di un formale riconoscimento. L’obiezione che veniva mossa riguardava il fatto che i bambini della scuola sperimentale imparavano più tardi a leggere, a scrivere e far di conto. Il percorso tradizionale impone infatti il primato della prestazione, del risultato, della valutazione quantitativa, sospendendo l’importanza verso una formazione integrale ed una vera educazione civica. Il “saper essere” è uno scomodo antivirus, all’interno di una società fondata sul conflitto e sulla disgregazione fra le parti sociali. La scuola, nel ruolo di istituzione, quindi col mandato ufficiale di mantenimento del sistema, non potrà che ignorare questa essenziale istanza di ciascun individuo e di ogni comunità. Riempire “scatole vuote” e incidere tabule rase è una missione che si protrae ormai come una liturgia, e che non può riuscire ad ammettere l’estrema ed urgente importanza di formare cittadini pensanti, critici, maturi nelle abilità socio-relazionali.

Per tale motivo emerge la necessità impellente di rimediare a questo lacerante vuoto formativo, agendo attraverso strategie educative volte a sviluppare ciò che si chiama intelligenza sociale.

Tutte le professioni educative si rivolgono alle componenti dell’intelligenza sociale, prendendosene cura e cercando di integrarle sia fra loro che all’interno di un ben più esteso e vivo contesto ambientale.

Guidare allo sviluppo e all’espressione dell’intelligenza sociale significa sollecitarne i suoi elementi costitutivi, elencabili come in modo seguente:

a ) Empatizzazione

b ) Controllo attentivo

c ) Orientamento sociale/Intersoggettività

d ) Attenzione congiunta

 

Far accrescere e manifestare questi essenziali fattori identificativi di una personalità socialmente funzionale, diventa il vero “obbligo formativo” di una seria proposta formativa attenta ai bisogni della persona, sia come individuo che come agente inserito in una comunità di simili.

Ciò che concerne al punto a) è in evidente riferimento a quelle competenze che si estrinsecano dal momento in cui si riesce a produrre contatto emozionale in reciprocità, compenetrando e condividendo sentimenti, desideri ed emozioni. Si tratta di un fenomeno psichico legato ai punti seguenti b) e c), in quanto un legame interpersonale si palesa anche nel comprendere il significato delle risposte e delle reazioni altrui, individuando nel feedback le relative richieste.

Ogni tipologia di alleanza relazionale nasce da una impalcatura base che affonda nell’esperienza psico-affettiva della intersoggettività primaria, vissuta principalmente col dispensatore di cure durante il primo anno di vita. Successivamente, tale modello acquisito diventa una sorta di bussola interiore che regola e modula il tipo di condotta intersoggettiva in una rete di rapporti più allargata. Al punto d), infine, si fa riferimento a quella capacità di mostrare o ricercare attivamente condivisione, sia nell’azione che nel punto di vista. Dentro un contenitore esperienziale, questa abilità permette di coniugare interessi e modulare uno stile partecipativo, promuovendo comunanza di intenti e dunque progettualità in contesto di gruppo.

Ciascuno di questi punti merita una attenta e rigorosa considerazione, affinché l’indispensabile formazione del “saper essere” venga assunta a pieno titolo dentro un quadro di pieno compimento e realizzazione della persona. Questa, infatti, andrebbe ricollocata dentro una nuova visione di mondo, sovvertendo cioè quella attuale, che diffonde atteggiamenti competitivi e disfunzionali.

Occorre invece restituire alla soggettività umana quel giusto equilibrio fra affermazione di se ed accreditamento di una responsabilità sociale, che è piuttosto la premessa di ogni altra esperienza di apprendimento. Sembra questa una valida speranza per rifondare un senso di comunità, per mezzo del quale poter ambire a vivere secondo presupposti di collaborazione e di pace sociale. 

Potrebbero interessarti ...