UNA GHIANDA NON CADE MAI TROPPO LONTANO DAL SUO ALBERO? Famiglia e individuo nei percorsi formativi

Inviato da Nuccio Salis

ghiandaUn tema assai interessante quanto controverso, nella psicologia, riguarda il problema dell’influenza famigliare sull’individuo. Si fluttua di frequente fra la considerazione di un paradigma deterministico che vede ciascun soggetto come prodotto finale di un’eredità di valori, cultura e abitudini tramandati di generazione in generazione; ad un modello di lettura personologico che raggiunge quasi del tutto una visione marginale del ruolo della famiglia come decisivo dal punto di vista della formazione.
Viziati da un capitale di conoscenze consolidato e resistente nel tempo, quale quello di impostazione freudiana, si può tendere facilmente a considerare l’individuo come una sorta di prototipo ideale, foggiato esclusivamente dalle contingenze inerenti al sistema dei rituali e delle credenze trasmesse all’interno della propria estesa rete parentale. Tale rappresentazione non può che aver acquisito facilmente tutto il suo spessore, soprattutto dal momento che l’indagine storica che l’ha avviata si situava in un’epoca in cui l’appartenenza famigliare era un marcato segno di riconoscimento. Ovvero, l’identità personale si fondava su quella improntata dalla famiglia, verso la quale gravava pertanto ogni responsabilità su ciascun membro appartenente, risultando dunque elevata l’attenzione che il gruppo famigliare doveva prestare coll’incarico di difendere la propria onorabilità, prestigio, e nel caso il valore della propria casta. L’errore dell’individuo, dunque, poteva essere vissuto come uno sfregio nei confronti del sistema famiglia, che assumeva in pratica i connotati di un clan, di un’elite organizzata secondo regole e strutture che qualcuno definì non per caso con l’espressione di “familismo amorale”.
Le scienze sociali, come figlie del loro tempo furono intrise da questo modello culturale, e svilupparono di conseguenza un approccio che investì sullo stesso piano ogni ipotesi di ricerca e di proposta anche di genere educativo. Si trattava cioè di dedurre i caratteri dell’individuo dai suoi elementi legati alla provenienza famigliare, dall’estrazione sociale dentro cui si collocava la famiglia.


Verso tale modello, rivelatosi col tempo incompleto, inaffidabile e oltremodo riduzionista, si fa riferimento ogni qualvolta ci si trova di fronte a un individuo a cui indirizziamo il nostro trattamento (educativo, riabilitativo ecc.). Semplificando, molto spesso usiamo o sentiamo espressioni come “ci credo che si comporta così, è il figlio di…”, oppure “non poteva che diventare come il padre, che a sua volta è tale quale a suo nonno”… e via dicendo, convincendoci di una presunta continuità inappuntabile che spieghi i perché e i percome di una certa condotta comportamentale.
Che la variabile famiglia determini un anello fondamentale di influenza lungo le varie tappe della crescita integrata di un individuo, è certamente ampiamente provato, e non sarebbe utile non metterne in evidenza la salienza formativa. Evitare di compiere l’errore di omettere l’ascendenza formativa sull’individuo da parte della famiglia di cui fa parte, dovrebbe avere come atteggiamento complementare anche quello di non fare lo sbaglio di non addurre all’individuo le cause di se stesso alla propria volontà e autodeterminazione. Forse, è questo l’unico modo per evitare una classica impostazione dualistica secondo la quale l’assunzione di uno solo dei focus conosciuti invalida la tesi percepita come la sua controparte.
In pratica, l’orizzonte identitario di un individuo non è solo definito dalla famiglia, così come non è soltanto definito da se stesso.
Le teorie riferite a questi temi hanno forse esageratamente esaltato la portata potenziale della famiglia come agente socializzante, non considerandola peraltro come elemento congiunto ed interdipendente ad un sistema connettivo, in cui il “campo” famiglia si colloca dentro un tessuto ove è chiamata a svolgere un ruolo attivo che gli permette di ridefinirsi e rigenerarsi coniugando plasticità e stabilità. Ripeto, ci sono giustificazioni storiche sul perché del relativo ritardo con cui si sono sviluppate determinate riflessioni.
Pur comprendendo tali motivazioni, la questione spesso sembra in ogni caso richiamare una deleteria propensione dualistica, che alternativamente o svuota la famiglia del suo potenziale di modellamento, o priva e disconosce nell’individuo la funzionalità del proprio libero arbitrio.
Nel primo caso si corre il rischio di dispensare la famiglia dai suoi compiti e doveri educativi, e di incoraggiarla a produrre vissuti di percezione di impotenza, instabilità e incertezza-inquietudine. Se pensiamo di non poter influire ci tiriamo indietro, ce ne laviamo facilmente le mani, e ciò o può farci comodo o farci sentire inutili e rassegnati.
Nel secondo caso si rischia invece di stigmatizzare l’individuo, percependolo cioè come un soggetto abbandonato passivamente al suo destino, demandatogli da una consegna generazionale a cui non può opporsi. Egli, non potendo fare appello alla sua volontà di autodeterminazione, non potrà che farsi vincere da ciò che le aspettative famigliari e sociali attendono che esegua.
Si comprende come né l’uno né l’altro approccio possano, da soli, proporsi come modelli di lettura esaustivi circa il fenomeno della formazione della personalità, delle scelte e degli atteggiamenti.
Eppure l’eredità scientifica su questo piano è incisivamente pesante, e la gloriosa e meritoria conoscenza prodotta in questo ambito, se usata in modo sconsiderato e unilaterale, rischia di diventare un ostacolo piuttosto che un’opportunità per la comprensione, questo è il mio discreto parere.
Penso per esempio alle serie complementari di Freud, all’approccio psicogenealogico, alle costellazione famigliari, che hanno motivato strumenti di indagine biografica dell’individuo secondo un orientamento che prevede ciascun soggetto come risultante cellulare delle interazioni famigliari. Perfino l’analisi transazionale, seppur portatrice di assolute novità rispetto alla tradizionale marca freudiana, non è rimasta esente da tali suggestioni teoretiche. Essa, per esempio, ci spiega come spesso avvengono passaggi intergenerazionali da nuclei di famiglie ad altre, consanguinee, relative a problematiche e dinamiche irrisolte che si ritrovano puntualmente tra gruppi famigliari del medesimo ceppo. Ha chiamato tale fenomeno “epicopione”. Inoltre, sempre l’approccio transazionale non ha rinunciato a spiegare l’origine della struttura triplice degli Stati dell’Io mediante processi comunicativi risalenti ai “drammi” famigliari. Seppure, è bene precisarlo, in AT anche se l’individuo rimane modellato dall’esterno agisce comunque in modo interpretativo sugli inputs che riceve, personalizzandoli. E questa visione potrebbe già rappresentare una efficace formula olistica, una sorta di trade d’uniòn fra due modelli che isolati in un'antinomia dualistica non rendono nessun pregevole servizio all’utilizzo efficace della conoscenza.
Per pacificare l’ortodossia freudiana con lo slancio ottimistico di James Hillmann potrei azzardare che forse, una ghianda non cade mai così lontano dal proprio albero (?)

 

Magari ciò che conta è evitare di appartenere all’uno o all’altro approccio come fossero due rispettivi clubs o due rivali squadre di calcio. D’altronde credo che il determinismo e la visione radicale non giovino a nessuno, poiché questo produce dualismi e ideologiche scuole di appartenenza, che spostano il confronto da un paradigma neutro ad uno di matrice politica, e forse in certuni casi fuorviante rispetto al bisogno obiettivo di comprensione di quella complessa macchina psicodinamica che è l’essere umano.

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