Burn-out, il mostro mangia-helpers

Inviato da Nuccio Salis

burn out_vignettaLo temiamo come un cantante teme il mal di gola, e la sua pronuncia è un suono sinistro, innominabile: si chiama burn-out. Pende sul capo di ogni operatore dell’aiuto come una spada di Damocle, come una sorta di demone che quando ci vede all’opera si frega le mani e sghignazza, puntandoci con volto arcigno e famelico. A molti di noi sarà capitato di pensare di mollare tutto, lasciar perdere questa cavolo di professione dell’aiuto, di dedicarsi a qualcosa di più leggero, distensivo, meno impegnativo e poco assorbente di energie vitali. Stanchi di dover collaborare, confrontarsi, ricercare soluzioni, sentir parlare sempre di problemi, toccare e sperimentare in vivo il disagio e la sofferenza altrui, rievocare i propri dolori e le proprie ferite, darsi senza ricevere o peggio incamerare disconoscimenti, fraintendimenti e ostacoli, e ancora ricevere squalifiche e disprezzo, non vedere riconosciuto il proprio ruolo oppure, nel nostro caso stufi di dover rispondere “counselor” e sentirsi ribattere “Ma veramente io ti ho chiesto cosa fai di mestiere”.

 

Naturalmente, dopo averlo spiegato, saremo stufi di sentire la canzone dal titolo “Ho capito! Una specie di psicologo”. Già, è dura a queste condizioni essere counselor, essere compresi per la propria scelta di vita, avere maturato un linguaggio ed una professionalità che nel favorire integrazione relazionale agli altri ci mette fuori gioco noi. E così nelle conversazioni con persone comuni ci si trova magari a disagio, come quando sei vegetariano o celibe. Che fortuna, io lo sono tutti e tre!

Insomma, vuoi per motivi di lavoro e per collaterali fattori aggiuntivi al di fuori dell’attività professionale, l’operatore dell’aiuto può introiettare una certa quantità di stimoli che lo sovraccaricano di distress psicologico. Finchè si trovano efficaci scappatoie o valvole di sfogo, si rifà il pieno di energie vitali, ma se il carburante non viene reintegrato, i “succhiatori di energia”, cioè specialmente le persone sofferenti o con immane bisogno di raccontarsi al primo che passa, cominciano a spolpare e rosicchiare gli ultimi residui del fondo, mettendo a dura prova il nostro equilibrio psichico, delicato proprio come l’ecosistema: 5 miliardi di anni per farlo, 10 minuti di attività umana per distruggerlo. Si, certe persone influiscono sul nostro fragile equilibrio psichico come i nonni influiscono sulle buone opere educative realizzate dai genitori dei loro nipoti.

Abbiamo, o dovremmo disporre, di risorse e strategie personali per rialzarci in piedi, forti e motivati. Se il recupero è funesto, lento o assente, e la nostra condizione personale generale si trova ad una fase di riassestamento critico sulla nostra direzione di vita, allora è possibile avvertire un senso di vuoto e nullità circa il senso e l’utilità della propria opera. Se tale evento si irrigidisce in modo lineare e continuativo, nel tempo, si cronicizza, dando luogo proprio al fenomeno noto come burn-out, che equivale, come suggerisce il termine stesso, a “bruciarsi”, ad esaurire e dispendere eccessivamente il proprio entusiasmo e la propria energia.

Il primo ad introdurre tale termine fu lo psicologo Herbert J. Freudenberger, nel passaggio fra gli anni Settanta ed Ottanta. Poco dopo, le psicologhe Christina Maslach e Susan Jackson  ne descrissero  le caratteristiche principali, ideando anche uno strumento valutativo di quantificazione del fenomeno. Attualmente, esso viene studiato secondo un approccio stadiale che cerca di individuare le fasi ed i passaggi significativi del processo che lo caratterizza.

Generalmente, si può giungere alla conclusione che si tratta di burn-out quando ci troviamo nella situazione di veder andare a fondo le nostre energie psichiche ed emotive. Ci sentiamo stanchi, sopraffatti, sovraccaricati di fatica e pensiamo di non essere più utili a nessuno, di non avere più niente da dare ed offrire. Le persone e gli ambienti con cui entriamo a contatto per motivi professionali li percepiamo psicologicamente distanti, dirigendo verso gli stessi ostilità e cinismo, negandone cioè il valore. Di conseguenza, ridimensioniamo al ribasso l’impegno e la motivazione che avevamo dedicato a determinati obiettivi, ora percepiti come non più desiderabili, o non raggiungibili anche per via di una precipitosa caduta di autostima e senso di autoefficacia.

Il periodo dell’entusiasmo iniziale, condito anche da una necessaria dose di romanticismo ideativo, cede il passo ad un periodo di transizione che conduce all’epicentro di tale sindrome, ovvero preceduto da una finestra temporale caratterizzata da una sorta di automatismo stereotipo che consiste nel ripetere pur senza piacere il proprio operato, verso una incontenibile sensazione di essere definitivamente falliti. Ci si sente dunque inutili, frustrati, inadeguati e non in linea con le richieste, le esigenze, i valori, le aspettative e le opzioni offerte dal sistema e dell’ambiente di lavoro. Viene cioè avvertita una discrepanza incolmabile fra obiettivi del sistema e mete personali. La conseguenza di tutto ciò è un disinvestimento affettivo verso il proprio profilo professionale, e nei confronti di persone e luoghi caratterizzanti la propria professione, con successivo disimpegno operativo che in diversi casi conduce all’abbandono e alla rinuncia della propria attività.

Possiamo allora formularci la domanda “Com’è possibile uscirne da tutto questo?”, o meglio piuttosto chiedersi “Com’è possibile non entrarci in tutto questo?” Considerando anche che per varie persone, tale esperienza, anche se sofferta, ha potuto comportare nuove e più idonee scelte di vita e scoperta di attività ritenute più soddisfacenti. Quindi, senza dare nulla per scontato in merito a cosa sia più bello o più giusto per le persone, andiamo ad analizzare, con l’aiuto dello psicologo esperto Gerald Corey, quali siano per esempio i fattori di rischio che possono determinare una notevole esposizione alla saturazione psichica percepita come irrisolvibile. Egli fa riferimento al rischio legato nel ripetere monotonamente la stessa attività. Questa condizione può infatti condurci verso una routinarietà magari sicura ma che col tempo si rivela statica e inappagante, con ricadute anche negative sul piano della maturità e dell’aggiornamento professionale. Un altro fattore di vulnerabilità del nostro funzionamento psichico è riconosciuto nell’offrirsi troppo, di cedere a un eccesso caritatevole del proprio intervento di aiuto, risentendo poi della discrepanza fra ciò che si da (troppo) e ciò che si riceve (poco). Anche essere pressati da richieste in merito alla realizzazione di obiettivi o tempi non realizzabili può aprirci la strada al burn-out, e forse in questi casi praticare l’assertività sarebbe una risorsa preziosa. Così come conduce potenzialmente al sovraffaticamento occuparsi di persone che sono state inviate al nostro servizio di consulenza, senza la loro totale approvazione e fiducia, o ancora soggetti di elevata oppositività e resistenza al cambiamento. Altra variabile importante è citata nell’assenza di sostegno da parte di colleghi. Non si tratta soltanto di tecnica di supervisione, ma di avere a fianco qualcuno che comprendendo la natura del nostro lavoro possa in qualche modo sinceramente empatizzare con le nostre difficoltà ed i momenti difficili, che ci dia insomma delle confortanti carezze. Espone al rischio del burn-out anche non godere della possibilità di sperimentare e mettere a frutto le proprie teorie e le proprie ipotesi di ricerca, per via di un ambiente rigido e conservatore, che non contempla sperimentare o reinventarsi. Così come è potenzialmente deleterio isolarsi da un contesto di aggiornamento, formazione e supervisione e, naturalmente, avere problemi personali di una certa entità che interferiscono con la lucidità del proprio operato, disturbandolo e diminuendone l’efficacia.

Suggerimenti utili, dunque, possono essere ricavati leggendo al contrario i rischi. Pertanto, se è un fattore di rischio impantanarsi nella routine o di una prescrizione pedissequa di disposizioni ed attività, allora occorre introdurre novità e cambiamenti. Invece di offrirsi troppo rischiando di immolarsi nel nome della professione, si può invertire tale tendenza prendendosi cura anche di se stessi, proprio per poter essere nella forma adeguata alle aspettative ed alle esigenze dei richiedenti aiuto. Riconoscere i propri limiti ed organizzare tempi ed obiettivi degli interventi in modo realistico e flessibile. Dare compimento ai propri piani di ricerca cercando di avvallare coloro dai quali attendiamo una risposta che non arriva, e se arriva è negativa. Cercare sostegno e collaborazione dei colleghi è un’altra intelligente manovra da effettuarsi e, soprattutto, molto ma molto importante: “non esiste solo il lavoro!” Insomma ritagliarsi spazi significativi della propria esistenza, arricchenti sotto l’aspetto affettivo, relazionale, culturale o artistico.

È necessario inoltre prendere piena consapevolezza delle proprie eventuali distorsioni percettive circa il nostro mestiere e nella fattispecie colui che lo pratica. Viene cioè suggerito di pensare che sia nella norma sentirsi in certi momenti ansiosi, impreparati, e che bisogna riconoscere ed accettare i propri limiti, prendendo atto che non siamo infallibili, e che è impossibile ottenere con tutti risultati ottimi, credibili ed istantanei. Non chiediamoci troppo, diamo ciò che possiamo e che ci sentiamo di poter dare, il counseling non è una caccia personale per spingerci a trovare la frontiera estrema con cui metterci alla prova; perché ed a quale scopo?

In conclusiva sintesi io dico: STACCARE! Chiudere la porta dell’ufficio e andare a fare l’amore col proprio partner (o quello di un altro, non lo so), frequentare amicizie che ristorano il nostro spirito, ricordarsi di avere un’anima, o accorgersene per chi ancora non ci crede, guardare un film coperti dal piumone (tranne in estate) sgranocchiando veleni al sapore di brioche, e poi ridere ridere ridere… e rifare l’amore (stavolta col proprio partner). Mi state prendendo troppo sul serio? Occhio al burn-out

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