Tu sei più della somma delle tue singole parti. Ritrovare l'unicum animico dentro se stessi

Inviato da Nuccio Salis

113Si dice spesso che i nostri atteggiamenti, le nostre scelte, la nostra scala di bisogni e di valori, la nostra identità e la percezione che abbiamo della medesima, derivi tutto interamente dal modo con cui veniamo accolti dall’ambiente sociale. Sarebbe dunque il contesto storico-culturale a determinare l’aspetto strutturale e processuale del nostro esserci ed esistere al mondo. È vero che questa visione deterministica, col passare del tempo, è stata ridimensionata nell’ambito della ricerca umanistica; tuttavia tale paradigma ha costituito un substrato cardine all’interno del modello epistemologico delle scienze psicosociali. Questa influenza sembra persistere ancora tuttoggi, implicando spesso la difficoltà nel percepirci in primo luogo come persone individue dotate di capacità di discernimento e libero arbitrio, ed in secondo battuta rischiamo di capitolare proprio laddove siamo in prossimità comunicativa con l’altro da noi, finendo per difettare di capacità di ascolto e piena attribuzione di valore e di autodeterminazione ascritta al nostro prossimo. Proprio questo è il punto: riconoscere nell’altro la capacità di autofondarsi, costituirsi da se, programmare apertamente e liberamente il proprio piano di vita, ha il significato di credere nella possibilità di emancipazione e cambiamento. Questo principio, che è fondamentalmente la bussola che celebra lo sviluppo della relazione di aiuto, non si espande alla sua estrema conseguenza che consisterebbe nell’ignorare l’incisività della propria esperienza formativa, cerca piuttosto allo stesso tempo di promuovere uno sguardo disincantato e conciliante col materiale mnestico ed emozionale del nostro passato biografico. Quindi, il campo fenomenico di forze dentro cui siamo avulsi e contaminati secondo formule dirette e indirette, nel costituire quell’insieme di variabili che pressano ed esercitano una marcata influenza su ciascuno di noi, si confronta con le nostre strutture genetiche, individue e temperamentali che già organizzano la nostra complessa costituzione personale. In pratica saremo già interdipendenti anche dal momento in cui non possediamo che un rudimentale substrato per programmare le risposte adattive agli stimoli che ci vengono inviati. Cioè, siamo sempre organismi reattivi, in qualunque istante della nostra vita; ciò che cambia è la qualità strutturale attraverso la quale generiamo il feedback da reindirizzare all’ambiente sociale da cui, per continua circolarità sincronica e dinamica, rilevarne ulteriori informazioni.

Un bambino piccolo, secondo lo psicologo transazionale Claude Steiner, viene plasmato da una serie di comandi ed ingiunzioni che definiscono processi e strutture di una matrice secondo cui la personalità del bambino è di fatto costruita dalla qualità degli stimoli psicoaffettivi trasmessigli dagli adulti significativi. Secondo questa cornice, il piccolo soggiace ad un programma formativo impostogli secondo coordinate il cui margine di intenzionalità e consapevolezza sfugge finanche agli autori che prescrivono tale matrice. Dai 2 ai 7 anni, secondo lo psicologo Eric Berne, tale massa di stimoli si sarà sedimentata a dovere nel definire i piani vita a lungo termine del bambino, ovvero cosa farà da grande, che ruolo interpersonale assumerà nelle relazioni, quale status socio-economico raggiungerà, quali tipologie di persone frequenterà, perfino se avrà problemi di natura penale con la legge o se perderà la casa giocando a poker. Quando e come il bambino lo abbia deciso, apre argomenti di natura assai controversa nell’ambito della ricerca sullo sviluppo.

Pensare, difatti, a una programmazione esterna del bambino, come se si stesse caricando un software all’interno di un elaboratore di dati, è in contrasto con lo stesso principio umanistico che fonda la scuola di pensiero fondata dallo stesso Berne. È a partire da queste considerazioni, però, che nasce il vocabolo ed il concetto di “scelta inconsapevole”. Il bambino sceglie, decide, poiché il suo corredo ereditario, la sua struttura biopsichica portante e la sua capacità di reagire agli stimoli ambientali fin dalla sua origine, filtrano la moltitudine degli input esterni grazie ai primi substrati cognitivi, percettivi, emozionali, che aggiungono significato personale alla realtà, aggiungendole cioè la plusvalenza della percezione e dell’impressione soggettiva.

La scelta, dunque, lungi dall’essere legata a un processo consapevole dovuto alla maturazione delle impalcature neuro-cognitive che per l’appunto devono ancora svilupparsi, sarà invece il risultato di una propria visione di mondo legata essenzialmente alla sfera del sentire emozionale, dunque l’attribuzione del senso di realtà coincide con lo stato affettivo o di benessere o di malessere, e tutto ciò sembra proprio essere in linea con la prospettiva egocentrica del bambino. In questa fase, sarebbe disonesto negare il potere dell’ambiente sociale di foggiare il vissuto del bambino e dunque la sua personalità, dal momento che gli strumenti di verifica critica e ridecisionali non sono per l’appunto maturati. Tuttavia, a fronte delle tematiche trattate, non possiamo nemmeno dire che il bambino assorba passivamente i fattori contestuali pregni di significati affettivi e veicolanti messaggi influenti di natura relazionale. L’aspetto che si pone all’epicentro di questa riflessione riguarda la struttura della soggettività che, per quanto possa essere incompleta e indeterminata in certe fasi dell’età evolutiva, agisce comunque secondo certe sue propensioni ed inclinazioni, seguendo regole e percorsi misteriosamente nascosti fra i disegni di quell’unicum che è ciascuno di noi, che proviene da un oltre che trascende la semplice sommatoria elementare delle parti che lo compongono.

L’accesso interpretativo alla realtà è sempre dunque da tenere in ferma e viva considerazione, poiché tale capacità si manifesta in modo costante ed inevitabile. È dunque l’approccio costruttivista che può rendere giustizia della nostra natura di agenti sociale ed elevarci ad un piano non soltanto di fruitori ma di generatori di nuove trame, codici e significati dell’esistenza. Un aneddoto edificante a supporto di tali argomenti lo riporta lo stesso Eric Berne, quando racconta che una madre diceva sempre ai due suoi figli che erano soggetti “da manicomio”, e che prevedeva che un giorno sarebbero proprio finiti li. Ebbene così accadde, entrambi compiacenti alle richieste ed alle aspettative della loro unica fonte affettiva disponibile, da adulti finirono ambedue in un ospedale psichiatrico, solo che uno di loro non fu un paziente, ma uno psichiatra.

Quindi, il classico interrogativo “patrimonio genetico o variabili ambientali?”, che tanto ha diviso e divertito coi più strampalati sofismi teoretici, non soltanto non finisce nella prospettiva integrata e semplificata del valutare entrambi gli aspetti come influenti nei percorsi formativi personali, ma deve assumere quell’elemento di “oltre” che è l’unico che può ascendere l’essere umano al livello che gli spetta, cioè un “oggetto” di studio metafisico, di natura trascendente.

Per giunta, come si espresse il filosofo James Hillman:

“Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali,e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi si chiama “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredita ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali”

Una riflessione illuminante circa la questione che ho proposto.

Già, in conclusione pare proprio che se si sovrapponesse la nostra valutazione interpretativa ad un altro processo di valutazione interpretativa, il risultato non potrà che farci uscire sconfitti, provati e infelicemente confusi. Per fortuna, proprio nel processo interpersonale basato sul counseling, possiamo far riappropriare l’altro verso la sua rotta precedentemente sospesa, bloccata, o priva di coordinate o direzione, al di la delle diatribe inconcludenti fra genetisti, empiristi e altre suppellettili; semplicemente facendo nostro uno degli insegnamenti di Gesù Cristo: [“Il Regno di Dio è dentro di voi” (Lc. 17,21)]. Oltre la genetica, al di là dell’indottrinamento, dei traumi e delle false convinzioni, al di la perfino di noi stessi come siamo abituati a percepirci nella vita apparente.

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