Confine e contatto: facile dire, difficile digerire


confine contattoIl concetto di confine è semplice da comprendere ma è difficilissimo da vivere, soprattutto se ambivalente è stato apprenderne il senso e l’esistenza; la semplicità infatti a volte è ingannevole, semplice spesso si considera sinonimo di facile, ma decisamente questo è un grosso errore.

<< [Il confine è come] una pelle, un tessuto vivo che permette il contenimento, la separazione e la comunicazione tra interno ed esterno del corpo, pelle che nutre e vive lei stessa di interno ed esterno […] >>. Quando ho letto questo brano ho pensato che rifarsi alla pelle per definire cos’è un confine fosse un’idea molto ben espressa, che decisamente rendeva nitido il suo significato, questo è stato il primo tranello in cui sono caduta. Sono ancora convinta che pensare alla pelle sia un ottimo esempio di ciò che definisce l’immagine del confine-contatto, ma per me la facilità di comprensione non si è accompagnata ad un’analoga facilità di digestione del senso, soprattutto è stato lungo e lento il depositarsi dei singoli granelli che gli hanno conferito peso e struttura.

Credo che il punto sia che << Nella realtà psichica gli affetti creano oggetti […] i sentimenti testimoniano il superamento di una dimensione puramente strumentale di rapporto in quella autentica dell’”incontro”, qualcosa che, una volta avvenuto, non potrà più essere cancellato >> (1), e la cosa principale che non può essere cancellata è la relazione con chi per primo si è preso cura di noi, per questo, nel discutere sul concetto di confine, è indispensabile riflettere prima su quello di attaccamento. Ancora una volta mi ritrovo a fare i conti con l’apparente facile. Attaccamento è un termine non solo facile, ma facilissimo; non ci sono dubbi nel comprendere cosa voglia dire, ma se lo si adopera nel campo delle relazioni e di come queste si siano strutturate, allora tutto muta.

Col tempo ho accettato che il modo in cui siamo accuditi ed il modo in cui noi ci predisponiamo a funzionare sono connessi, ma che non è detto che la traduzione che noi ne facciamo sia poi esattamente corrispondente a ciò che i nostri genitori, o chi ne ha assunto il ruolo, hanno posto in essere; che il nostro attaccamento ha una sua esistenza che si interseca con figure significative e con esperienze di vita; insomma ho accettato che dietro ad una parola semplice ci sia un cumulo di complicazioni, poi ho letto un libro. C’era scritto che << I bambini ci dicono ciò di cui hanno bisogno in ogni fase del loro sviluppo. Dobbiamo imparare ad ascoltarli e a decifrare il loro linguaggio. I genitori possono capire i loro figli e avere un atteggiamento giusto verso di loro nella misura in cui non obbediscono in modo automatico a dei principi educativi, non si affidano ciecamente al giudizio degli esperti, non hanno essi stessi un vissuto personale troppo doloroso >>. (2)

Ancora una volta si tratta di frasi semplici, che per me però significano complessità. L’ultima frase soprattutto: “[nella misura in cui] non hanno essi stessi un vissuto personale troppo doloroso”. Che cosa significa? Quando e chi stabilisce questo “troppo”? Una questione di confine si para nuovamente davanti a me come uno stendardo, e sventola.

Ho scoperto recentemente che mia madre aveva, tra i moltissimi libri che ho sempre saputo possedesse, un testo di cui non avrei mai sospettato la presenza, è Il bambino, di Benjamin Spock. Questa scoperta mi ha stupita. Più di tutto mi ha stupita il fatto che io dessi per scontato che mia madre non si fosse mai interessata a letture di questo genere. Credo che anche questo assunto possa dirsi figlio del mio attaccamento. Oggi che lei non c’è più, la immagino intenta a leggere e mi domando se fossi già nata o no, se fossi attesa o no, se quel libro lo ha mai davvero letto o no. Se lo ha comprato lei o se è stato uno dei tanti regali che qualcuno ha portato in dono ad una neo-mamma. Mi chiedo anche se per caso non sia arrivato fino a me come molti altri volumi diversi, parte di un’eredità che vedo e tocco, che ha un peso ed un ingombro, ma di cui ignoro molto. In fondo credo che l’attaccamento sia proprio questo. Al di là delle illuminanti ed importanti spiegazioni scientifiche, figlie di un approccio, di un tempo e delle loro evoluzioni, figlie di sperimentazioni e di verifiche, figlie di padri e madri che hanno dedicato la vita e l’ingegno alla comprensione di meccanismi che si ripetono, io credo che l’attaccamento sia un collante potentissimo, che non perde la sua capacità di far aderire sul supporto sul quale è steso, tutte le particelle che entrano in contatto con esso.

Così dentro di noi si depositano migliaia di piccoli frammenti di un pulviscolo fatto del tempo e dei legami che prima hanno aderito su altri, gli stessi che ci cullano o che non lo fanno, gli stessi che si dibattono nel tentativo di far crescere qualcuno, senza ben capire se è davvero un altro o no. Perché anche le persone diventano particelle che aderiscono, ed il punto è che la parola attaccamento indica ciò che per definizione unisce, non separa, quindi trovare il modo per staccarsi sembra quasi un tradimento, oltre che una contraddizione di termini. Sembra, eppure è proprio qui che si trova lo snodo principale di un ingranaggio che ci fa scricchiolare per tutta la vita e che ad ogni investimento d’amore, di crescita, di evoluzione, richiede una nuova, faticosa, speciale, messa a punto.

La cosa sconvolgente è che in questa officina esistenziale non si trasforma il modello originario, ma lo si può integrare, perdonare, riscoprire, rinnovare, fino a farne qualcosa che forse serve a dare anche un’altra funzione a quel collante, quella di ricucire strappi antichi di chi e con chi non c’è più.

 

 

 

  1. (1) R. Dalle Luche, S. Bertacca, L’ambivalenza e l’ambiguità nelle rotture affettive, FrancoAngeli, Milano 2007, pag. 18
  2. (2) Isabelle Filliozat, Le emozioni dei bambini, Piemme, Alessandria 2001, pag. 12.

 

 

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