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IL SETTING COME AMBIENTE DI INTERAZIONE. Il colloquio come co-costruzione di significato

Inviato da Nuccio Salis

percorsi incrociati

Nell’ambito del trattamento alla persona, è piuttosto diffusa l’idea secondo cui uno specialista che è investito del compito di curare l’accoglienza e la conduzione di un’esperienza di crescita, a favore di un individuo a cui è diretto il proprio intervento,  sia deputato alla guida di tale processo in quanto dotato di una autorevolezza legale e scientifica, e in ragione di ciò egli viene riconosciuto e collocato come soggetto dominante all’interno della relazione, ovvero assume quella funzione di guida che non può essere messa in discussione in quanto possiede quelle giuste coordinate e quelle intoccabili verità a cui il ricevente aiuto può soltanto rimettersi ed accettare acriticamente, allo scopo di ottenere quelle impeccabili dritte e indicazioni che altrimenti non potrebbe raggiungere se dovesse soltanto contare sulle proprie forze.

Chi è entrato nel merito delle teorie e delle pratiche del counseling, in realtà ha potuto apprezzare come una tale impostazione, oltre che ingenua e dannosa, non ha alcuna corrispondenza con gli scopi che il counseling stesso propone, e con i criteri scientifici e assiologici attraverso cui questo indirizzo specialistico fonda la sua azione sociale, con il proposito di fornire supporto e consultazione con una qualità adeguata e un rendimento altrettanto soddisfacente, misurabile e verificabile.

 

Inoltre, anche qualora un percorso di counseling procedesse secondo i parametri di una buona alleanza fra professionista e cliente, tale esperienza rimarrebbe in ogni caso caratterizzata da reciproce dinamiche di scambio e di cambiamento che coinvolgono entrambe le parti accomunate da vicendevoli e complementari finalità.

Rimane assodato che esistano esperienze che possano rivelarsi decisamente più toccanti e profonde di altre, e che hanno richiesto allo specialista dell’aiuto un maggiore impegno nella gestione delle sue risorse personali, cognitive ed empatiche. Ogni soggetto è portatore di storie che possono muovere risonanze, istanze sopite, stimoli vitali e intuizioni destabilizzanti. Il counselor è prima di tutto un essere umano, e la sua umanità è peraltro strumento precipuo di generazione di nessi e di reperimento di punti di contatto con l’altro da sé.  Egli è infatti un esperto creatore di relazioni, e sfrutta la sua competenza comunicativa interpersonale per aiutare la persona a ricostruire quella trama perduta che rappresenta il nodo della sua identità, il tassello che completa la conoscenza di sé, e dunque l’ipotesi di azione su cui fondare nuove aspettative legate ad atteggiamenti più maturi e consapevoli.

Il counselor, in pratica, cresce col cliente. Si potrebbe cioè affermare, a questo proposito, che un counselor cambia tutti i giorni, mentre il cliente cambia una volta sola. Naturalmente questa massima è una semplificazione che non rende conto della complessità connessa agli effetti che ciascuna relazione può indurre in ciascuna persona che ne conferisce valore, e al tempo stesso vuole però evidenziare la forte carica e richiesta di cambiamento e di adattamento a cui il counselor è soggetto continuamente. Le istanze e le pressioni trasformative non possono non riguardarlo e lasciarlo indifferente, in quanto egli si ripromette di presentarsi come punto di riferimento che aiuta e guida verso traguardi di mutamento. Pertanto il suo tragitto non soltanto professionale ma soprattutto esistenziale è connotato da questo imprescindibile aspetto. Egli è dunque una figura che può esplicitare la sua opera soltanto se prima di tutto espande in primo luogo le sue qualità umane. E qui non si tratta banalmente di essere buoni, secondo l’ennesima ed immancabile rappresentazione stereotipa del comune intendere, quanto invece di avvalersi di parti di sé preparate ad anticipare, percepire e forse anche sollecitare le novità sociali, e quindi tutti di saper accogliere e convivere con tutti quegli elementi che possono costituire motivo di crescita per la persona e per la comunità intera.

Il counselor è per sua natura un ricercatore di nuove vie, di inedite ipotesi non ancora contemplate, e che non nega a priori, perché magari rigidamente influenzato da una qualsivoglia dottrina. Per una mente flessibile, quantistica ed aperta, non esiste l’impossibile; e allora egli è anche e soprattutto un curioso attratto dal non noto e dall’inesplorato, e che indaga senza pregiudizi di forma ogni fenomeno, con un ‘pensiero marziano’, direbbe ancora Eric Berne, riferendosi alla necessità di avere uno sguardo disincantato e sospeso, “senza memoria né desiderio”, citando una bella ed edificante espressione coniata dallo psicanalista Wilfred Bion.

Questi principi indicano la priorità da applicare nel contesto situazionale del counseling, in riferimento al fatto di evitare la sovrapposizione della propria forma mentis e dei propri costrutti su quelli del cliente, soprattutto se percepiti come deboli, incompleti, fragili oppure assurdi. È un insegnamento trasmesso più volte e ridondante, nell’ambito della formazione in counseling, e tuttavia ancora forse non si riesce a rispettare del tutto questo precetto. I modelli della comunicazione più diffusi e utilizzati sono molto influenti e radicati saldamente dentro la modalità dell’essere di ciascuno, e separarsene e metterli in stand-by dentro una dinamica che prevede un servizio centrato sulla persona, rimane un compito percepito ed espletato ancora in modo piuttosto costoso e impegnativo.

È paradossale, in effetti, pensare al fatto che procedere ad incoraggiare e sostenere una circolarità comunicativa efficace, possa far sentire alienati e disadattati proprio a causa di un approccio percepito come innaturale, destabilizzante e grottesco. In realtà, è proprio questo tipo di nuovo paradigma a possedere la potenzialità di immettere nell’individuo nuove risorse da spendere per un problem-solving più efficace e creativo.

Certo che, in effetti, in tal modo si può assistere alla creazione del curioso paradosso secondo cui un modello efficace di relazione non riesce ad integrarsi in una realtà quotidiana dove domina la verbosità, il sovrapporsi l’uno con l’altro, la disattenzione e la mancanza di ascolto, l’insulto e la denigrazione facile, il pregiudizio e le strategie euristiche attraverso cui valutiamo e anticipiamo la misura di tutte le cose. Sembrano aver riflettuto (si fa per dire) su questo aspetto, alcuni genitori che insegnano ai loro figli di reagire con durezza ed essere più forti e più furbi sempre una spanna sopra agli altri, cosicchè in questo modo non verranno sopraffatti. Va da sé che questo modello, se va per la maggiore, produrrà una società di gladiatori pronti ad attaccarsi ed affrontarsi al primo sgarro, per l’onore e la reputazione. Sia mai che passino per nonviolenti o subiscano l’onta di essere percepiti come miti, placidi o sensibili.

Poste queste riflessioni che probabilmente fomenteranno idee ulteriori, anche contrariate, va da se che il counselor non è soltanto un produttore di valore quanto anche un recettore di valore esperienziale e biografico prodotto dall’Io narrante del suo interlocutore.

Le due componenti in gioco, counselor e cliente, sono parti integrate ed integranti in una comune piattaforma di significazione, ovvero una comune area dentro la quale si attiveranno come soggetti costruttori di senso.

Ad esempio, entrambi condividono uno spazio-tempo comune, i cui dati sono, almeno dal punto di vista della misurazione, rilevabili per via di una loro sistemazione topologica, cronologica e lineare. Ma quanto rimane di questa oggettività presunta nell’esperienza sostanzialmente psichica da parte di ciascuna parte coinvolta nel processo?

Voglio dire che, se da una parte, l’ambiente dentro cui è inscritta la complessità esperienziale cheambedue vanno formando, viene considerato come luogo definito da parametri misurabili, d’altra parte non può essere ridotto alla descrizione di un setting connotato soltanto da elementi che si ripetono. La variabilità del clima relazionale che si instaura dentro la cornice, fa ruotare e modificare il quadro che vi è contenuto, come se l’ambiente stesso fosse una sorta di proiezione caleidoscopica cangiante, in grado magari di generare una illusione di controllo e di contenimento. Dunque, la nozione di ambiente è da approfondire e delineare secondo linee teoretiche forse più avanzate rispetto a quelle che limitano questa accezione riferendosi meramente al posto, al set in cui è allestito di tutto punto la zona destinata all’incontro.

L’ambiente è arricchito dall’incontro fra due soggetti portatori di storie, di bisogni, di istanze affettive, di identità in progressiva evoluzione. Se considerato sotto questa ottica, il concetto di ambiente riflette un dialogo fra esperienze, personalità, ipotesi di mondo e orientamenti di valore appartenenti a due distinte strutture psicodinamiche. È vero che il counselor non si autorivela a tal punto da non lasciare che sia il suo cliente a svolgere la parte del protagonista principale dello speciale fenomeno relazionale a cui entrambi contribuiscono, ma è altrettanto vero che il suo spessore e il suo carisma legati alla sua presenza, alla sua personalità ed alla sua qualità espressiva, fungono da catalizzatori di importanti influenze che rilanciano verso gli altri un modo di essere che in una situazione così particolare non può non lasciare traccia di sé. Ma è ciò che accade anche al counselor, che nell’accogliere la singolarità espressiva del cliente, e provare ad accettarla incondizionatamente, si avvalora di quelle rappresentazioni di mondo, e può farne materiale di ricognizione anche di sé.

Entrambi, inoltre, investono su quella stessa relazione a cui compartecipano, un insieme di speranze, attese, elementi ricercati in modo tale da produrre due distinte ma al tempo stesso contigue esperienze di gratificazione. Entrambi si sentono coinvolti dentro un progetto, e lavorano per la sua realizzazione, portando prima di tutto se stessi. Anche il counselor, avendo assunto uno stile personale nell’approccio alla persona, e avendo dato il primato alla sua autenticità, come elemento prezioso e di comprovata efficacia nella relazione, non ridurrà la sua azione ad una adesione sequenziale e rigidamente schematica di procedure. Con questo non significa che la sua azione sarà ingenua o improvvisata, ma che pur se corroborata da un pertinente equipaggiamento di strategie intenzionali, non degenererà nel tecnicismo più freddamente meccanico e algoritmico.

Ciò vale a dire che la storia e la persona del counselor arricchiranno inevitabilmente quella esperienza, perché anche la tecnica scelta viene condotta ed applicata con un proprio stile ed una propria peculiare performance. L’indirizzo teorico-pratico del conduttore del colloquio, la sua appartenenza alla matrice scolastica di riferimento, combinata alla sua esperienza complessiva in termini storici ed autobiografici, ne faranno un professionista preparato, colto e completo, che insieme al cliente sviluppa una importante pagina della vita propria e del suo interlocutore, in uno scambio che equivale ad un vero e proprio processo di co-costruzione dell’intero significato di colloquio, la cui direzione e il cui valore sono definiti in progress proprio dall’incontro fra due modelli personologici che non si sono di certo conosciuti per caso.

Ed è proprio in quel territorio condiviso che ciascuno ridefinisce se stesso, il counselor al servizio del cliente, e quest’ultimo particolarmente impegnato in un processo in cui le proprie vicissitudini diventano opportunità di rilettura e di riprogrammazione di sé, in un percorso protetto, sostenuto e guidato da chi, non ergendosi a maestro di vita, si dichiara pronto ad incamminarsi dentro un progetto di cui sarà co-autore e co-protagonista, nel rispetto di chi riceverà quella spinta ad affermarsi dentro una nuova visione di sé, e quindi dentro un percorso in cui il cliente recupera e reperisce le sue importanti e preziose risorse di assertività ed autoefficacia. 

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