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“SONO FATTO COSI’ CHE CI POSSO FARE?” Perché e come si resiste all’evoluzione

Inviato da Nuccio Salis

rassegnato

Esistono persone le cui problematiche hanno finito per assumere un ruolo di rilievo nelle loro vite. Sono coloro che si portano dentro un disagio rimasto insoluto, un malessere che li accompagna costantemente, e che ormai sembra proprio caratterizzarli: Esse si improntano talmente sulla loro biografia da determinarne una sorta di etichetta che rende questi individui stessi riconoscibili agli occhi della controparte sociale. In pratica, c’è chi viene nominato in associazione al suo problema, o al suo limite, e questo ne riveste un ruolo di identità che delinea una cornice di senso all’individuo stesso, senza la quale sarebbe anonimo, sconosciuto, non citato all’interno di un gruppo.

Non di rado, infatti, si sente pronunciare il nome di qualcuno in riferimento al suo problema, alle sue debolezze e alle sue vicissitudini. Raramente si entra nel merito di ciò che la persona è. E così si sente dire: “Chi, la tua vicina di casa? Quella che ha avuto due aborti ed ora ha una grave depressione?”, “Ah, già, il figlio di quella famiglia disgraziata, che tragedia, bocciato due volte in quarta elementare!”, giusto per fare qualche esempio immaginario. E così, ancora una volta, la comunità prende atto dell’esistenza del singolo e riserva allo stesso un posto esclusivo, ma può farlo attraverso un’attribuzione svalutante, o che ricalca gli aspetti legati ai limiti, alle fragilità, agli insuccessi ed ai punti vulnerabili della storia e dell’identità della persona considerata.

 

Il fenomeno racchiude in sé la legge principale della psicologia umana: ovvero la tendenza a preferire un riconoscimento negativo pur di  essere visibili o ammessi come appartenenti alla collettività. Questo principio assoluto, che fonda quasi sempre la ragione di una permanenza sulle proprie problematiche, diventa la motivazione principale secondo la quale un individuo conserva il proprio disagio. Quando il problema riveste la persona come una seconda pelle, questo ha la forza di costituire una valida superficie che funge da interfaccia fra il mondo interiore e il referente sociale all’esterno. La persona scopre di aver costruito un’identità stabile, rigorosa, che può essere notata, chiacchierata e discussa. Questa situazione non rappresenta una scelta consapevole da parte dell’interessato; si tratta piuttosto di un orientamento atavico, che ha a che fare con una norma di sopravvivenza, in relazione cioè alla capacità di essere accettati come membri del branco, per ottenere protezione ed ogni sorta di vantaggio dovuto al poter affrontare non da soli i rischi ed i pericoli insiti nell’ambiente. Questo leit-motiv di base accompagna la spiegazione di tale fenomeno, il quale, per poter essere comunque compreso in maniera esaustiva, necessita di uno sguardo maggiormente ampio che ne contempli la complessità, in aderenza a una realtà contemporanea costituita da una maggiore moltitudine di fattori e variabili causali.

La domanda ‘perché manteniamo i nostri problemi?’, potrà essere soddisfatta approfondendo tutti gli elementi che risultano legati da una dinamica complessa e che val la pena leggere ed interpretare.  Ad esempio, si può fomentare una riflessione sui vantaggi implicati nella scelta di non voler affrontare il focus nevralgico del proprio problema. Tenendo presente che quando si parla di scelta, ci si sta riferendo a un processo decisionale di cui può essere ignoto il livello di consapevolezza individuale, in merito al rapporto causa-effetto nella relazione fra comportamento inappropriato e difficoltà esperita. Nel senso che non tutti i soggetti si rendono conto di quanto in parte siano responsabili della loro condizione di permanenza e ripetizione dell’evento problema. Allo stesso modo, quando si citano i vantaggi, si intendono questi come componenti che evitano all’individuo di approfondire la relazione con sé e con l’ambiente, e quindi lo collocano in una posizione di “risparmio energetico”, di economia creativa; cioè un luogo in cui l’individuo può permanere nella propria apatia senza mettersi in discussione, ovvero senza scoperchiare la prospettiva del cambiamento. Si tratta dunque di un vantaggio dallo stretto punto di vista del protagonista preso ad esame.

Il personaggio che ciascuno, più o meno coscientemente si crea, difende tutti quegli schemi rassicuranti e ripetitivi che si sono consolidati con l’abitudine e per mezzo della coazione stereotipa. In sintesi, questa corazza genera sicurezza, prevedibilità, stabilità e sensazione di controllo. Di contro si paga il prezzo più alto, che coincide con il non raggiungere uno stato appagante di ritrovata autenticità. In questo modo, peraltro, il soggetto soddisfa le aspettative sociali. Percepisce che gli altri si attendono in modo scontato quali siano le sue reazioni ed i suoi comportamenti rispetto a un certo stimolo X, e ciò reitera l’ordine, conforta la quotidianità e protegge dall’imprevisto. Di fondo resta la sensazione di essere incapaci a gestire un cambiamento, perfino nel caso in cui riguardasse la fuoriuscita totale e radicale dal proprio problema centrale e caratterizzante.

Quel che si riscontra di frequente, infatti, è l’ambivalenza di fronte al pensiero di dover sciogliere una volta e per sempre il proprio nodo problematico. Nel senso che, se da una parte si immagina positivamente di aver superato le proprie note di disagio, d’altra parte fermenta la paura del dopo, che si manifesta  in certi casi come una vera e propria angoscia ingestibile, profonda e scioccante, che si spalanca di fronte alla possibilità di risolvere i propri aspetti disfunzionali.

Il soggetto, cioè, non sa stare senza il suo problema! Questo convivente inquietante, per molti versi sgradito e causa di sofferenza, è diventato anche il biglietto da visita senza il quale si prospetta il nulla, il vuoto, una soffocante sensazione di solitudine allarmante e inconcludente.

Questo dimostra come ogni persona può identificarsi in modo adesivo con il proprio problema, interiorizzandolo a tal punto da farlo divenire parte di sé, e dunque, paradossalmente, a vivere il lutto nel caso venga abbandonato. La fatica di lasciare le cose vecchie, anche se spiacevoli, è di fatto una situazione ricorrente nell’essere umano; in questo senso ‘nessuno vuole morire’.

E così ci creiamo qualche slogan da usare all’occasione per difendere quella obsoleta visione di vita che ha conservato il problema. Queste strategie di cronicizzazione del malessere adottano comportamenti incongruenti, che rivelano i nostri punti irrisolti e le nostre ambigue contraddizioni. Per esempio: ‘vorrei dimagrire ma mi piace troppo mangiare”, oppure l’intramontabile canzone “ormai sono fatto così”; come se fossimo stati modellati dall’esterno senza il nostro minimo consenso. Queste modalità ci sottraggono dall’esercizio di responsabilità e di volontà, determinando la situazione insoddisfacente, e rendendoci fra l’altro non soltanto generatori di problemi personali, ma anche sociali, dal momento che le svolte storiche diventano necessarie, e il mondo ha bisogno proprio di coloro che incalzano nel sovvertire e modificare strutture e regole divenute antistoriche e non adatte ai mutati bisogni umani.

È dunque necessario considerare che l’aiuto alla persona nel superamento del problema, implica anche riflessioni di questa natura, e che la partecipazione del soggetto alla propria evoluzione, è fatta anche di ambiguità, resistenze e paradossi. Per cui è da tenere in conto che ciascuno possa chiedersi: ‘Che cosa sono, o che cosa ho, se non c’è più il mio problema?’ A questa domanda in gran parte non conscia, si cerca di aiutare la persona a rispondersi da un luogo esistenziale che contempli il nulla non come un’assenza di qualcosa e quindi come un horror vacui, ma come un nuovo punto di partenza da cui avrà inizio, in modo responsabile e partecipe, la propria rinascita e rigenerazione di sé.

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