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VUOTO DI COORTE: il nichilismo della non generazione contemporanea

Martedì 13 Novembre 2012 01:00

Inviato da Nuccio Salis

unitiLa società contemporanea ha adottato uno stile di vita decisamente consumistico. Avere e possedere sono gli imperativi esistenziali che dominano gli orientamenti e le scelte di una immensa moltitudine di soggetti. L’omologazione dei bisogni e la massificazione di ideali, attitudini, interessi, modelli di relazione e percezione di senso, è la caratteristica di questo momento storico, così assurdamente svilito da una globalizzazione che è tutt’altro che una condivisione interculturale di valori basata sullo scambio fra popoli. Questo processo, di natura molto più economica che umana, sembra paradossalmente unire ed allontanare il senso dell’altro. L’altro diventa sempre più simile a me: lo svedese e il macedone consumano gli stessi hamburger di gomma paraffinica, un bulgaro e un canadese desiderano magari la stessa macchina sportiva o lo stesso cellulare. Insomma, sempre più vicini e sempre più lontani, in quanto l’allineamento di una medesima cornice di senso svuota quelle peculiari specificità che non sono più il risultato di processi sani e collaterali di incontri interetnici dovuti a flussi migratori e contaminazioni culturali, sono invece la risultante di uno schiacciante e violento processo di uniformità che prevede la svalutazione del singolo e della sua unicità, a vantaggio di un collettivismo provvisto paradossalmente di scollamento fra i suoi elementi.

Gli agenti sociali, cioè, divengono semplicemente passivi riproduttori di questo ridondante nichilismo che perpetua questa condizione di svuotamento di ogni orizzonte di significato. A farne le spese maggiormente, come riscontrabile nella quotidianità, i più giovani; non parlerei in questa circostanza di nuova generazione, in quanto con questo termine si vuole indicare un raggruppamento omogeneo per età e contingenze storiche, etiche e politiche in senso ampio, che acquista gli strumenti, le conoscenze ed i modi di agire propri della cornice contestuale di riferimento, riproponendola in termini innovativi nel tessuto sociale, ai fini di ricambio, miglioramento e crescita etica, spirituale e scientifica.
Una generazione, dunque, è un movimento, un’espressione dinamica di un Sé storico e comunitario, che propone istanze, rivendicazioni, che avanza richieste, che tenta di autodeterminarsi connettendosi alla dimensione del vissuto comunitario di cui fa parte. Le modalità attraverso le quali lo fa sono varie, possono abbracciare forme di protesta aggregativa di matrice violenta, anche con connotazioni politiche, o riguardare invece manifestazioni più socialmente accettate o costruttive.

Al di là delle espressioni, discutibili o perfettibili, con cui una generazione avanza il suo diritto a rigenerare la società mediante l’assunzione di un ruolo attivo, quel che conta, per rimarcare il concetto, è che una generazione si definisce tale proprio perché acquista un ruolo storico protagonista, spesso così rilevante da lasciare il segno, così incisivo da creare pagine di storia che poi legano le persone che vi fanno parte anche dopo decenni di vissuti, oltre il periodo giovanile. Insomma, una generazione sviluppa anche nei singoli un comune senso di appartenenza, ricordi, suggestioni, simboli, una marcata impronta identitaria in grado di evocare e costruire uno degli involucri sicuri che da significato e orientamento alla propria storia, ai propri vissuti ed alla propria identità.
In breve, una generazione produce cultura e costruisce valori che, per quanto arbitrari e perituri si rivelino, li immette comunque nell’orizzonte socio-culturale di cui fa parte, assumendosene responsabilità e paternità.

Di fronte a tale disamina sul ruolo e sulla funzione processuale di una generazione, difficilmente sembra possibile parlare in questi anni di “generazione giovanile”. La caratteristica della disgregazione fra i nuclei-persona e le reti sociali che compongono, quanto meno a livello di mappatura e presenza scenica del contesto comunitario, e la crescente passività sconcertante che si diffonde presso i giovani e i giovanissimi, conducono più appropriatamente a parlare di coorte, piuttosto che di generazione. Ovvero di un concetto più vicino ad una aggregazione numerica, corrispondente in misura maggiore ad una definizione statistica e quantitativa, più che ad un soggetto storico e sociale in movimento, in grado di avere un impatto sulla vita di una collettività estesa.
La sfida educativa che ci troviamo oggi di fronte è proprio questa: restituire un panorama di modelli credibili e di piattaforme di significato esistenziale alle nuove generazioni.

Per questa ragione eviterò l’espressione “vuoto generazionale”, in quanto una generazione non potrà mai essere distinta da un vuoto. Una generazione è una fioritura di nuovi lidi di senso e di motivazioni supplementari rispetto all’esistente. Cioè credo che esista sempre una spinta creativa dentro il concetto di generazione, ripeto, al di là della tipologia con la quale viene proposta dalla stessa. Parlerei dunque di “vuoto di coorte”, e che non è probabilmente da cogliere soltanto come una sorta di marchio di cui sembra avere esclusiva l’attuale popolazione giovanile, come se i giovani contemporanei fossero nati dannati, disagiati e spogli di valori.
Il vuoto c’è perché nessuno lo riempie! I giovani attendono a bocca aperta di esser raggiunti da modelli di condotta edificanti e seducenti. Seppur sfidanti, oppositivi, provocatori, essi non aspettano altro che di essere guidati, accompagnati, con un saggio e sapiente dosaggio armonico di contenimento e cura affettiva.

Certo, lo scoramento è forte, così come è acerrima la spinta a massificarsi, perdendo l’autenticità del Sé e ripiegando in una identità fittizia e surreale, accolta dalla mediocrità e apprezzata da ciascun ricercatore di popolarità e consenso. Questo atteggiamento è utile soltanto al rilancio di una società basata sulla fruizione di beni che marchiano l’individuo, dimensionandone il grado di accettabilità sociale a seconda che questi decida o meno di appartenere allo schieramento degli obbedienti ai dettami della globalizzazione, quella cioè che fa dell’individuo umano, per citare Herbert Marcuse, un uomo a una dimensione.
I ragazzi attualmente vivono senza saperlo dentro questa gabbia che ne trita i loro vissuti, disorientandoli, provandoli di basilari competenze socio-affettive e relazionali, scaricandoli di fatto dentro un percorso di disagio, demotivazione generalizzante, deresponsabilizzazione e terrore di vivere.

Una nuova generazione, dunque, di fatto non c’è. E non c’è perché mancano gli adulti, che socialmente non assumono l’impegno di educatori, ma si propongono come modelli di deresponsabilizzazione, evitando di dimostrare per esempio il valore del sacrificio e della conquista per merito. Noi adulti abbiamo edificato un modello di mondo e di vita in cui indichiamo tutti i giorni ai giovani di passare per la porta larga, di scavalcare, fregare il prossimo, schiacciare prima di essere schiacciati. Lo indichiamo col nostro stile di vita e coi nostri disvalori maturati dalla nostra incompetenza dell’educare e del vivere, dalla nostra cecità dimentica della poesia di cui è insita la vita, della nostra continua caccia al privilegio, al comfort, alla fortuna che ci risolva tutti i problemi che, senza quella degenerazione mostruosa in cui siamo finiti, nemmeno ci saremmo creati.

Dunque, ai giovani facciamo arrivare un doppio messaggio: verbalmente siamo pieni di saggi consigli, dispensiamo regole, suggerimenti, indicazioni, ammonimenti ed aiuti, di fatto (ed è questo ciò che viene assimilato) agiamo nella discrepanza della nostra vigliacca ipocrisia, incapaci di cogliere ed accogliere la verità, di fronteggiare con senso costruttivo e di responsabilità ogni difficoltà, in quanto incalzati da un continuo e sottile addestramento alla violenza, perpetratoci quotidianamente in ogni modo da questa macchina globalizzante, in modi dolci, morbidi ed insospettabili. Perché sorprenderci se i giovanissimi non danno più senso alle cose che fanno? Perché rimanere sbigottiti di fronte al diffuso atteggiamento di ridurre al calcolo utilitario ogni esperienza? Di non far perdurare le relazioni e di farsi trascinare dal tempo, senza vivere con pienezza? Noi glielo abbiamo insegnato, noi; grandi maestri e cultori del nichilismo materialista, dalle cui mammelle ne traiamo la linfa mortale, perché anche se abbiamo capito che la vita non è quella che abbiamo fatto fino ad ora, non abbiamo il coraggio di dircelo, figuriamoci spiegarlo ai nostri giovani!

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