Il male non è nello scandalo ma nella sua divulgazione


scandaloDa che mondo è mondo - o meglio, da quando Adamo ed Eva si accorsero di essere nudi e si vergognarono delle loro “vergogne” - lo scandalo (dal greco ‘skàndalon’: ‘pietra d’inciampo’, ‘impedimento’) non smette di scandalizzare le coscienze; se non tutte, almeno quelle che non si sono ancora perse nei meandri e nei cavilli del sottopotere clientelare e tartufesco. Si può ben capire quindi come e perché una classe politica scandalosamente corrotta, salvo qualche pecora nera capitata lì per sbaglio o per fede sincera, cerchi in tutti i modi di addomesticare e di manipolare l’opinione pubblica controllando i mezzi d’informazione, in primo luogo la TV, e, a seguire, i giornali. Però qui sorge un problema di forma e di sostanza: una democrazia può definirsi e funzionare come tale se l’opinione pubblica è tenuta all’oscuro dei reati commessi dai governanti?

E’ accettabile una giurisdizione che assicuri l’impunità ai membri della classe dirigente, tanto più quando questa non sembra proprio in grado di espellere le tante, le troppe mele marce che allignano nel suo seno? La cosiddetta “questione morale” è un mero argomento retorico-propagandistico, o la vera questione di fondo sulla quale si gioca la credibilità e la tenuta delle istituzioni repubblicane? Certo che non assistiamo all’ideale svolgimento della vita politica e della convivenza civile quando la magistratura assume compiti e iniziative che confliggono oggettivamente con il potere esecutivo; ma di fronte alla endemica collusione tra sistema affaristico-mafioso e politici di riferimento ai più alti livelli, la magistratura che cosa dovrebbe fare? Occuparsi d’altro?

Non sia mai! Recitano all’unisono gli esponenti della maggioranza (in questo spalleggiati, se non apertamente, di certo nelle segrete stanze, da non pochi esponenti della cosiddetta opposizione): i reati vanno perseguiti, ci mancherebbe altro! Quello che si vuol colpire con la legge in discussione al Senato sulle intercettazioni è lo “sputtanamento” (dixit il neodevoto Giuliano Ferrara) di amici, parenti e conoscenti innocentissimi che per puro caso sono stati intercettati, e poi finiti sulle pagine dei giornali, a loro ludibrio e a sollazzo degli assatanati lettori, trasformatisi per l’occasione in altrettanti voyeurs!

Il fine dunque sembrerebbe garantista: si vuol salvaguardare la privacy di tanti onesti cittadini - e anche di quelli disonesti, ma da ritenersi innocenti fino al terzo grado di giudizio - in ossequio al sacrosanto diritto alla riservatezza, sancito dall’Art. 15 Cost. Perché dunque tanto clamore? Che cosa vogliono questi irresponsabili direttori responsabili (tra i quali l’amico del giaguaro Vittorio Feltri) delle maggiori testate italiane? Non vorranno per caso, oltre a far cassa con i gossip, far cadere il governo sotto i colpi degli scandali divulgati dalle loro inchieste tendenziose? Ma la questione non è soltanto politica; qui sono effettivamente in gioco due diritti costituzionali: quello della libertà e della segretezza della corrispondenza, e quello dell’informazione (“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Art. 21 Cost.).

Per un garantista liberale puro, il principio della libertà personale e della inviolabilità della privacy è sacro, ma altrettanto sacro dovrebbe essergli quello della libertà d’espressione e dell’indipendenza della stampa nei confronti del potere, così determinante per la formazione di uno spirito pubblico critico e maturo. Le due libertà sono complementari, e caratterizzano entrambe uno Stato di Diritto e l’esercizio delle libertà fondamentali. Inoltre, un cittadino onesto, che cosa ha da temere?

D’altra parte è anche vero che, in certi casi, c’è stato un uso abnorme e ingiustificato delle intercettazioni e della loro divulgazione a mezzo stampa. Ma in altri casi, invece, sono risultate decisive (vedi l’inchiesta sul G8 in Sardegna). Come uscirne? “Quello che mi sento di dire – scrive Roberto Saviano sulla Repubblica del 22/05 – è che governo, magistratura e stampa, in questa vicenda dovrebbero trovare un terreno comune di discussione, perché di questo si tratta, di riappropriarsi di un codice deontologico che renda inutile il varo di leggi che limitino la libertà di stampa, di espressione e di ricerca delle informazioni.

Non è limitando la libertà di stampa e minacciando l’arresto ai giornalisti che si arriva a creare una regola condivisa.” Dunque la parola chiave è deontologia; parola e concetto il cui senso, per molti operatori dell’informazione e per molti liberi professionisti (dei politici collusi tutto è già stato detto. O no?), è come l’Araba Fenice. Ma finché non si comprenderà che la ricorrente questione morale nel nostro Paese non riguarda solo la giustizia, ma è al tempo stesso questione politica, civile ed economica, avremo sempre, temo, la classe dirigente che ci (de)meritiamo.

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