l'aiuto è prima di tutto... autentica capacità di collaborazione


ingranaggi

l'aiuto è prima di tutto...autentica capacità di collaborazione

 

            Riprendo la riflessione iniziata qualche tempo fa (counselingitalia, quando l'aiuto è prima di tutto... ) a proposito della necessità di autentica capacità di collaborazione tra gli specialisti che hanno in cura la stessa persona. Non è infrequente, dicevo per diretta esperienza nell'attività di counselor, che gli specialisti operino ognuno all'insaputa dell'altro con effetti destabilizzanti sul paziente che, anche per sua inconsapevole responsabilità, si trova così a vivere un percorso accidentato e contraddittorio, fatto di stop-and-go, diversi e ripetuti.

La necessità più immediata che si impone è certamente quella di stabilire una efficace comunicazione tra tutte le figure che sono coinvolte e dunque, quando quella persona, confusa e provata da ripetuti inutili tentativi di soluzione ai suoi problemi, chiede aiuto anche a noi counselor, proprio noi, per deontologia professionale e perché il nodo da sciogliere in primis è evidentemente il disorientamento, chiederemo il suo consenso a contattare le numerose persone che si stanno "occupando" di lei.

 

            Avevo già anticipato, a conclusione della precedente riflessione, che ottenuto il consenso della persona, "è tutta una scalata di settimo grado (per usare un... eufemismo)" , per un numero ragguardevole di motivi fondamentalmente tutti connessi alla difficile e poco ri-conosciuta figura del counselor , non considerato da medici, psicologi, psicoterapeuti, uno specialista, quanto piuttosto una presenza coreografica, se non addirittura pericolosamente ininfluente e fuorviante rispetto ad ogni specifico problema di salute fisica o psichica. Ma non è su questo che intendo soffermarmi, dal momento che altro è il problema che ho posto.

            Consapevole, dunque che il clima intorno alla nostra professione (sic!) è quasi sicuramente diffidente / ostile, occorre mettere in atto da subito le strategie più idonee perché la comunicazione inizi libera da fraintendimenti che rinvierebbero ancora di più il momento in cui la persona si rassicura, perché questo è l'obiettivo, ben più rilevante del provare la propria efficacia come professionista. Continuo ad attingere ad una delle recenti situazioni da me vissute nel ruolo di counselor.

Gli specialisti da contattare, tutti presentemente coinvolti e ignorantisi a vicenda, sono (nell'ordine con cui sono stati dalla persona contattati):

1. il medico di famiglia 2. un medico omeopata 3. uno psichiatra 4. la neurologa 5. il cardiologo.

            La persona ha chiesto il mio aiuto perché non riesce a scegliere se continuare la cura omeopatica, prescritta dal medico omeopata tre mesi orsono per vincere l'insonnia, o iniziare la cura prescritta, sempre per debellare l'insonnia, dalla neurologa, due giorni fa. Il dilemma non è piccolo: il medico omeopata insiste, coerentemente con il suo punto di vista, che solo con una cura omeopatica la giovane donna (poco più che trentenne) potrà veramente risolvere il problema dell'insonnia, evidentemente legato a difficoltà emotive, mentre i farmaci avrebbero soltanto lo scopo di nascondere i problemi che, non risolti, tornerebbero a mordere più forti che mai, una volta sospesa la cura.  La neurologa, dal suo altrettanto legittimo punto di vista, insiste sulla assoluta necessità che vengano assunti e al più presto farmaci, anche antidepressivi, perché alto è il rischio di un peggioramento grave. Né l'omeopata, né la neurologa si fermano a colloquio con la paziente più del tempo necessario a trascrivere la ricetta.

Il cardiologo (chiamato in causa per episodi ripetuti di bradicardia), presa visione dei risultati dell'holter pressorio, ha rassicurato F.(iniziale fittizia con cui, da ora, indicheremo la giovane donna) sulla sua ottima salute fisica ed ha aggiunto che la cura proposta dalla neurologa è assolutamente inadeguata e inappropriata per lei, ma neppure un rigo ha pensato di inviare al medico curante di famiglia, né tanto meno si è  messo in contatto con la neurologa. F. è tormentata e mi chiede consiglio, è sorpresa e contenta quando le chiedo di contattare gli specialisti.

 Scelgo di contattare per rima la dott. neurologa: al telefono, mi presento, brevemente spiego il mio rapporto con la "sua" paziente e chiedo un colloquio per poter essere io di aiuto nella attuale situazione. La neurologa mi chiede di inviarle una mail perché non ritiene opportuno parlare con me al telefono di  una sua paziente, dal momento che non mi conosce. Le invio una mail, in cui ribadisco la riottosità della sua paziente ad iniziare la cura, sintetizzo il mio lavoro  come teso a fortificare in lei l'autostima piuttosto compromessa e dopo qualche giorno arriva la risposta: faccio bene a lavorare sull'autostima, tra un mese e mezzo avrò migliori risultati, grazie alla "lieve" cura da lei prescritta alla paziente.

Contatto, intanto, il medico di famiglia, una dottoressa poco convinta della necessità di assumere psicofarmaci per i disturbi lamentati da F.: tre telefonate non bastano ad ottenere un colloquio, quando risponde è occupata in ambulatorio, nelle ore in cui mi chiede di chiamare perché è libera, non risponde. Decido di inviare un sms e ancora oggi sono in attesa della risposta. Ben altri otto giorni  sono trascorsi ed F. sta esaurendo del tutto la forza di volontà: non dorme, va al lavoro malvolentieri, continuamente vive litigi con il partner che vuole lasciare, dopo anni di burrascosa relazione, ma resta in posizione di stallo, perennemente con la testa e le emozioni rivolte al passato, provando nostalgia dei pochi momenti belli e rabbia soprattutto tanta rabbia per i tanti momenti faticosi e nutriti dalla slealtà del partner, una rabbia che sta sempre più rivolgendo contro se stessa (all'insonnia si stanno aggiungendo tristi pensieri, qualche attacco di panico, apatia...).

Dunque, gli specialisti? Ognuno per sé e di sé ipersicuro.

E i dubbi, ci sono? Sì, quelli del counselor -i  miei- che osserva la situazione nel suo complesso e non ...a compartimenti,  e naturalmente quelli, devastanti, di F.

L'Epilogo:

ferma all'obiettivo di risolvere il disorientamento sulla cura di F.,  modifico la mia strategia di intervento: preso atto che la figura di un interlocutore capace di tirare le fila in questo disorganico ginepraio è risultata introvabile tra i tanti specialisti coinvolti  (secondo la prassi corretta è compito del medico di famiglia),  mi rivolgo ad un medico che è noto per le sue specializzazioni e per essere professionalmente interessato a collaborare con colleghi e tutte le figure che, a diversi livelli, intervengono nella cura dei suoi pazienti.

          Sempre dopo aver avuto il consenso di F., chiedo dunque parere a lui, gli descrivo dettagliatamente la situazione di F., riferisco i pareri discordi e contrastanti dei diversi specialisti; F. precisa farmaci, dosi e posologia delle cure prescritte e finalmente arriviamo al traguardo (un primo piccolo ma importante traguardo): una sintesi e un'indicazione, suffragata da supporti scientifici, sintesi tra i contrastanti pareri finora avuti presentati come modalità di soluzione contrapposte, ciascuna con proprie peculiarità. Tra le diverse proposte F. può naturalmente esercitare il suo diritto di scelta, ma ora riceve dal medico, ultimo coinvolto,  indicazioni, spiegazioni di cause ed effetti collaterali dei farmaci (quelli che più spaventano F. per pregresse antiche situazioni) e soprattutto  il medico si assume la responsabilità di queste informazioni come di una cura più lieve e mirata alla sintomatologia che F. presenta.

            In estrema sintesi, due gli elementi essenziali per cominciare ad aiutare F.:

1) tre parole magiche: assunzione di responsabilità  di uno specialista perché F., già in difficoltà, non sentisse su di sé anche la responsabilità di "darsi"  la cura.  F. è capace di fidarsi e di affidarsi e un medico deve saper riconoscere questa disponibilità (che è anche grande opportunità) nel paziente che ha di fronte e quando la trova non può ignorarla. F. aveva grande bisogno che chi le prescriveva la cura, gliene offrisse ragionevoli e fondate rassicurazioni sull'efficacia, anche rispetto alle altre soluzioni proposte

2) disponibilità del counselor, figura di riferimento, pronta ad accogliere dubbi e richiesta di sostegno ogni volta che F. ne avesse bisogno, in quella situazione senza guida.

            Il percorso di F. sta continuando positivamente, ha fiducia nella lieve cura, ha ripreso a dormire, ha deciso su altre importanti situazioni della propria vita, ha sempre meno bisogno del counselor, anche se talvolta qualche tristezza adombra le sue giornate.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

           

 

Potrebbero interessarti ...