nella società delle immagini, osservare e...decodificare


 

Magritte

nella società delle immagini,

 osservare e...decodificare

 

 

Penso che nella storia di Narciso

sia importante riconoscere

che il suo problema non fosse quello di vedere se stesso nel riflesso,

ma quello di non vedere l'acqua.

da Giovanna Silvestri,Narciso: il riflesso senza acqua, Il mito secondo Bill Viola, riflessioni sull’esperienza narcisistica

 

            Narciso non tocca e non viene toccato, guarda il riflesso e non vede l'acqua.

Toccare e farsi toccare, dissolversi e fondersi con l'Altro-riconosciuto per trovarsi arricchito, trasformatoè ciò che ognuno di noi potrebbe imparare dal con-tatto con l'immagine, ma sappiamo bene che non è così.

 

            Almeno in Occidente, è opinione condivisa che stiamo vivendo nella civiltà dell'immagine  ed è stato calcolato che 500 immagini sono quelle che più o meno vediamo in un giorno e di queste alcune hanno un senso altre no. E noi? noi,  siamo in grado di distinguerle?

            Il fotografo e docente di arte fotografica Walter Pescara, alla domanda se esiste la civiltà dell'immagine, risponde:

esiste sicuramente, esiste un atteggiamento di lettura superficiale della realtà in un mondo - il nostro- che ha pochi valori profondi; se una persona non ha attitudine o argomenti così interessanti da dover essere approfonditi con la lettura e che prevede che legga delle parole, cerchi di capirne il senso perché affascinato da quell'argomento, la società della parola va in recessione e ci limitiamo a osservare, guardiamo le immagini.

da Intervista a Walter Pescara (http://www.progettomavica.com/articoli/numero2/la%20societa%20della%20immagine.pdf, marzo 2013)

            Appunto, osserviamo, guardiamo con una superficialità che è la stessa con cui leggiamo testi scritti o "leggiamo" i film, un livello che è stato definito livello zero, cioè quello per cui siamo attenti, per sommi capi, agli eventi, alla trama, a cosa è accaduto, con frettolosità, pronti a transitare, nell'immediato, ad altro interesse, altrettanto rapido ed epidermicamente vissuto.

In una lettura siffatta è assolutamente escluso che ci coinvolgiamo come persone, che ci interroghiamo su motivazioni o punti di vista differenti, su ciò che è evidente e ciò che è volutamente nascosto o ancora sulle informazioni che tra le righe, nelle pieghe di un discorso, in un punto altro del fotogramma e oltre l'immagine è possibile cogliere: semplicemente non ne abbiamo allenata la competenza necessaria.

            Troppo spesso, quando frequentavamo la scuola, persino i docenti ci hanno fatto credere che leggere e comprendere i testi, i film o le immagini fosse necessario per..."ottenere la sufficienza", per raggiungere la promozione, ma si è trattato di un terribile inganno e quei pochi tra docenti e studenti che hanno compreso che era quella della comprensione una battaglia per la vita, l'unica vera battaglia dalla quale nessuno di noi può essere esonerato semplicemente per rispetto alla propria dignità di essere umano, solo quei pochi hanno creduto e si sono impegnati allo stremo nell'allenamento. In questa nostra società occidentale che vive una ben strana condizione di opulenza e crisi ad un tempo, molti osservatori sferrano giudizi  severi indicando soluzioni che suonano quanto meno improbabili per chi da decenni ormai si è abituato a subire, a vivere passivamente la pressione esterna.

I cittadini (lettori-spettatori) devono prendere consapevolezza di quella che è la forza delle immagini e dovrebbero, per quanto possibile, accrescere la propria cultura fotografica, che consista perlopiù in un approccio attivo verso l'immagine, piuttosto che di passiva “somministrazione mediatica [...]Una fotografia [...] qualsiasi fotografia, può più agevolmente uscire dall'ambito barthiano del “mi piace”, “non mi piace” e assurgere a documento della storia e della cultura visiva, solo se cerchiamo di contestualizzarla con più precisione, individuandone l'epoca e l'occasione dell'esecuzione, il suo significato all'interno dell'attività dell'autore che l'ha prodotta, l'uso che ne è stato fatto, la diffusione di cui essa ha goduto, i significati collettivi e sociali di cui è stata nel tempo investita.

Miraglia Marina nella postfazione di Favrod Charles-Henri, Zannier Italo, L'archivio Favrod,1997

            Che nella società di massa, l'immagine possa assumere strapotere, che l'immagine possa diventare  desublimazione dell’arte e in generale della cultura, proprio perché riproposta in un modo seriale e omologante che genera un appiattimento anziché un innalzamento culturale, non è certo una novità. Abbiamo persino studiato, forse, che  la cultura di massa, diventa cultura del tempo libero, dove l’uomo tende a fotografare più che a conoscere, a perdere i valori di sé nel passato per volgersi alla ricerca del proprio sé nel tempo libero, pur tuttavia non ci siamo abbastanza interrogati su quali siano i parametri di riferimento della comunicazione per immagini, né su quali ne siano i confini e non abbiamo sostenuto nelle giovani generazioni  l'attenzione al problema.

            Si fa presto a definire la società in cui viviamo, più difficile è cogliere eventuali antidoti alle inevitabili storture di una pur necessaria e positiva, per altri aspetti, crescita:

Con immagine intendo il complesso di informazioni ricevute attraverso la vista, l'udito e tutte le facoltà sensoriali , ci avverte Bill Viola

http://www.aiutopsicologico.net/filedownload/Narcisismo%20e%20Bill%20Viola.pdf

e già da questa considerazione potremmo partire per sentirci nella impellente necessità di accostarci alle immagini con estrema attenzione e competenza. E quando l'immagine, come sempre più frequentemente accade, è digitalizzata?

Vivere oggi nella società digitalizzata, società dell'immagine per eccellenza, ci mette a maggior ragione in una condizione di serrata convivenza con la fotografia,  di auspicabile e reciproco rispetto.

Siamo sufficientemente consapevoli di poter essere vittima di un'informazione distorta ?

             Non si tratta di voler giungere alla verità, anzi della verità ci piace la definizione di Umberto Eco:

un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi, elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo, così che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, in uno stile vincolante per tutti, ponendo il nostro agire sotto il controllo delle astrazioni, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti.

Eco Umberto, 2002, Kant e l'ornitorinco, Milano, Bompiani, p. 32.

            Esisto se sono un’immagine, se qualcuno - anzi il maggior numero possibile di persone - recepisce un’immagine convincente di me. Per apparire, ossia per essere, devo fare numero, devo essere un grande numero, e solo in questo modo “ho i numeri”. Appaio , dunque sono.

Non è difficile immaginare le conseguenze gravi sulla vita dei singoli: basta pensare, ad esempio,  a quanto devastante suoni un simile messaggio per gli adolescenti, già esposti per la terribile età che stanno attraversando alla ricerca della propria identità, al giudizio degli altri, del gruppo.

In quest’epoca delle immagini del mondo senza mondo non vi è più nulla che non sia immagine, e si fa molta fatica a distinguere la verità dalla finzione, perché entrambe sono immagini, entrambe sono vere  finzioni.

Pietro Ratto: Le immagini del mondo senza mondo, http://www.boscoceduo.it/Immagini1.htm

            Ed è per questo che sentiamo forte, nel ruolo di counselor come in quello di educatori la necessità di sostenere chi si rivolge a noi, sempre più spesso spinto dalla pressione mediatica verso comportamenti e bisogni che più indotti sono, più vengono avvertiti come irrinunciabili, pena l'emarginazione dal...gregge.

            Sarà anche per questo che è sempre più raro trovare all'indirizzo di persone anche autorevoli l'appellativo egregio ? Forse oggi vogliamo sempre e soltanto restare "connessi con"  , cerchiamo l'omologazione e temiamo lo stare con noi stessi, il nostro personalissimo dialogo interiore, come la peggiore delle solitudini.

            Buon lavoro, counselor

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

 

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