ETICHETTAMENTO, RELAZIONE E IDENTITA’: Le peggiori frasi da non dire a un bambino

Inviato da Nuccio Salis

bambini

Dobbiamo ammetterlo, spesso noi adulti siamo pessimi educatori. Potremo starci anche molto attenti, ma il retaggio assimilato dalla nostra stessa infanzia, l’abitudine ad emettere giudizi e confronti, e tutti i condizionamenti ricevuti a contatto con una società fondamentalmente violenta e competitiva, non impiegheranno troppo tempo ad infierire con qualche comportamento inopportuno nei confronti di un bambino. Potrà essere nostro figlio, un nostro allievo o un nostro studente, ma qualunque sia il tipo di rapporto stabilito o connaturato dalla tipologia del legame, è molto probabile che non resisteremo alla tentazione di prevaricare e mostrare la nostra supremazia.
Il rapporto educativo, già di per sé costituisce una relazione di potere, in quanto asimmetrica. Uno dei soggetti, prendendo in considerazione l’unità minima diadica educatore/educando, si trova in una condizione di superiorità, in quanto possiede risorse, esperienze, strumenti personali, opzioni dell’agire, maturità ed abilità necessariamente superiori al soggetto che vi si trova invece in uno stato ancora incompiuto. Ho scritto ‘necessariamente’, per sottolineare appunto il carattere di necessità, riguardo alla caratteristica di complementarietà che caratterizza e definisce la relazione propriamente educativa.


Lo sbilanciamento delle competenze e del livello maturativo, implica difatti una responsabilità da parte del soggetto ‘forte’, che assume l’obbligo e l’impegno di guidare e proteggere quello più ‘debole’, con l’obiettivo di sviluppare nel medesimo le istanze naturali di autonomia ed emancipazione, aiutandolo cioè a compiersi come soggetto unico, originale e consapevole, potenziato di tutte le sue doti e risorse personali.
Questa condizione rimanda al concetto del potere come servizio, quindi ad un agire cosciente, etico e responsabile. Chi ha più potere non deve abusarne per sottomettere il prossimo, dal momento che è esattamente questa condizione a sollecitare la forma dell’aiuto e del sostegno solidale, giusto, amorevole e partecipato.
Chi si sente vocato all’aiuto del prossimo, proprio in funzione della consapevolezza del proprio potere, si comporta come un maestro, ed offre agli altri il proprio modello edificante, aiutando a propria volta le persone a nobilitarsi, seguendo un tale esempio. Chi ha potere bacia i piedi a chi non ne ha, e si immola per chi ancora non contempla nemmeno le ragioni profonde delle proprie azioni. Questo è un insegnamento cristico, evangelico, del maestro Gesù Cristo, che rinuncia al proprio potere e si abbandona a una volontà più grande della sua. L’educatore che riuscisse ad imitare un tale modello avrebbe davvero compreso ed inglobato il senso stesso del mettersi al servizio del prossimo mediante il processo educativo.
Il nostro comportamento però è molto spesso meno edificante, rispetto a quello sopradescritto. Noi siamo soliti usare il potere per umiliare, far capire chi è il padrone, incutere timore, controllare e prescrivere a nostro esclusivo vantaggio, dividere per imperare, mostrare il potere stesso con fierezza e prosopopea, e godere della riverenza di chi se ne sente soggiogato. Credo che la nostra idea di potere sia abbastanza antievangelica. Ed i contesti in cui la manifestiamo più spesso, purtroppo, si riferiscono a quando ci rapportiamo ai bambini, dei quali ignoriamo richieste e bisogni, diritti, stati di malessere (espressi o potenziali). Compiamo cioè degli abusi, in tutta superficialità e leggerezza. La nostra lettura ai linguaggi del bambino è comunemente traviata dalle nostre impressioni, dai nostri pregiudizi, dal nostro non sapere, più di tutto dalla nostra disattenzione. Il bambino finisce cioè per non essere quasi mai la priorità.
Non è un caso che esista da molto tempo, ormai, un corollario di frasi fatte, che si avvicendano a seconda dell’occasione che si è creata, e che aiutano a semplificare, a risolvere come da copione nel pressapochismo e nella superficialità di chi non vuole approfondire, di chi è avvezzo a non riflettere e a non farsi domande.
Si può ricorrere più agevolmente ad un rituale ecolalico che fa parte della consuetudine consolidata. Ciò favorisce l’adulto, ma punisce e svaluta il bambino.
Ci si deve rivolgere, a mio modesto parere, più che altro ai genitori, in quanto trainers primari dei bambini che sviluppano le prime esperienze di contatto con se stessi e con il mondo, attraverso il filtro della famiglia e dei modelli genitoriali. Troppo spesso, ancora oggi, a fronte peraltro di una crescente de- responsabilizzazione dei genitori che iper-giustificano i loro figli, si assiste appunto all’espressione di un modello educativo famigliare ambivalente, che oscilla fra autoritarismo e permissivismo, offrendo strutture dell’agire incoerenti e discordanti in modo imbarazzante.
Fra gli interventi più inflazionati, si riconoscono i seguenti:

 

Lo sapevo che ti facevi male. Il messaggio implicito che si invia al bambino in questo caso è ‘non sei capace’, ovvero ‘da te ci si può aspettare solo guai’. La previsione di fallimento dell’adulto verso il bambino, può portare quest’ultimo a sostare esattamente sull’immagine che il primo ha proiettato sul bambino, ed identificarvisi.

 

Tanto non ci riesci. L’imperativo sorge come una minaccia, e il cattivo auspicio dell’evento previsto è tanto atteso quanto sottilmente programmato. Il bisogno di pre-annunciare la disfatta sulle intenzioni di agire, trae più che di frequente la sua origine dall’esercizio della volontà di controllo. L’istanza di dominio è molto forte nell’adulto iper-vigile e oltremodo protettivo. Molto spesso questo bisogno non è riconosciuto e dunque tantomeno gestito dall’adulto che ne è avvinto. Il bambino percepito come non autonomo, bisognoso, limitato e deficitario nelle sue abilità, fa comodo all’adulto che si rivale del proprio ruolo di decisore. Egli potrà essere sia un dissuasore autoritario, in merito al senso di iniziativa indipendente da parte del bambino, oppure un interventista ad oltranza, che salva e guida il bambino verso percorsi già decisi dall’adulto.In ciascun caso, l’adulto vi guadagna comunque il comando, e la stabilità di una situazione che può conservare e controllare a proprio piacimento.

 

Sei brutto quando piangi. Fra le opzioni decisamente più deleterie. Scegliere di inibire un’emozione perché svalutata nel contesto culturale di riferimento, impoverisce il repertorio esperienziale ed espressivo del bambino, costringendolo a sfogare il residuo energetico della carica emotiva non espressa, in un’altra che la sostituisce. Il rischio di questo processo consiste nel confondere il mondo emozionale del bambino, e fargli esperire dal punto di vista comportamentale, espressioni di sé inadeguate ed incongruenti rispetto allo stimolo emotigeno (es: ride quando dovrebbe piangere, si dispera quando dovrebbe essere felice, si rattrista quando dovrebbe gioire ecc.). Questa situazione, fra l’altro, genera proibizioni interne che inibiscono l’azione e il senso di iniziativa, fanno sentire spesso inadeguati, senza apparente motivo, aprono la via a relazioni inconcludenti e poco costruttive, e che fanno sperimentare soltanto disagio. È questa cioè la condizione che congela il proprio malessere fino all’età adulta, e che se non risolta può degenerare verso strutture e manifestazioni di personalità non equilibrate.

 

Fai schifo quando fai così! Non è infrequente che i bambini si lascino andare a comportamenti considerati culturalmente riprovevoli o sconvenienti, in diversi ambiti, da quello dell’igiene a quello del pudore o del galateo. Il fatto è che il bambino, scoprendo se stesso ed il proprio corpo, ama toccarlo, esibirlo, mostrarne i prodotti secreti, in quanto oltre a ricavarne piacere può comunicare socialmente la sua esperienza di crescita e di autoaffermazione. Egli ama cioè condividere le proprie scoperte, e soprattutto verificarne gli effetti provocati sull’ambiente intorno a lui. Eppure, in modo decisamente spazientito, l’adulto lo squalifica direttamente nella persona, nel senso che invece di riprendere eventualmente il gesto o l’atteggiamento considerati inopportuni, si incolla al bambino un’immagine negativa, gratuita, che egli non può mettere in relazione con ciò che fa. In sintesi, al bambino arriva un messaggio puramente distruttivo della sua persona, senza una ragione, che mina l’apprezzamento che può avere di se stesso, faticando poi, con la crescita, a concepire se stesso in modo positivo, gratificante ed efficace.
Chi lavora a contatto coi ragazzi lo sa bene. La percezione negativa di se in termini di autostima ed autoefficacia è crescente in modo allarmante. Si può constatare come i ragazzi siano comunemente pervasi da un senso di sfiducia, verso se e verso il mondo, e si sentano incapaci di affrontare i compiti evolutivi. Mostrano un’elevata vulnerabilità e ripiegano su rapporti interpersonali decisamente precari e basati sull’utile e sull’interesse personale.

 

Hai visto il tuo compagnetto di scuola? Lui si che è bravo. La sensazione di essere sbagliati raggiunge la cima quando si viene paragonati a qualcuno che riesce, che rappresenta il prototipo vincente che fa tendenza in quel momento. Un genitore che confronta il proprio figlio per sminuirlo ed umiliarlo accanto a un modello “più buono”, sta provocando una ferita profonda, perché sta inviando un messaggio di piena svalutazione e di rifiuto totale. In pratica è come se dichiarasse in altre parole di essere stato sfortunato ad avere lui il figlio che ha, e che gli piacerebbe cambiarlo, perché quello che ha è sbagliato. Agli occhi del bambino, tale messaggio di rifiuto è una promessa di abbandono, una minaccia angosciosa e castrante, che rende il bambino vulnerabile, manipolabile e sottomesso, e che lo fa implodere in una rabbia mista al dolore della perdita; una infelice combinazione per la salute psichica della persona. In questo modo, il bambino può soltanto identificarsi su qualità considerate negative, e sente di non dover scoprire, esplorare ed apprezzare le parti migliori di sé, perché esprimerle significherebbe essere diversi da ciò che invece si è obbligati a rassomigliare. È l’inizio di tutti i disagi ben noti anche all’adulto.


Del resto è necessario ricordare che il bambino foggia la sua identità sulla base delle aspettative dell’adulto. Per il bambino, infatti, soddisfare le richieste (sia implicite che esplicite) dell’adulto, significa garantirsi una sufficiente dose di gratificazione, protezione e affetto. Un tipo di affetto in questo caso condizionato, quindi ottenibile soltanto quando si verificano le condizioni imposte dall’adulto, in merito alla somministrazione delle attese da parte dello stesso, siano esse verbalizzate o non verbalizzate. Il bambino avvertirà in ogni caso qual è l’idea che l’adulto si è formato e che sta conducendo per raggiungere un’adesione fra immagine interiore e identità del singolo.
Senza rendersene conto, l’adulto plasma così l’immagine interiorizzata ed irrealistica del bambino, come uno scultore inconsapevole, sedotto dall’idea della forma da manipolare dall’esterno, piuttosto che affascinato o incuriosito dal contenuto psichico che appartiene al bambino. Egli, in pratica compie il sentiero opposto del processo dell’educare, perché riempie la dimensione interiore del bambino di precetti e costrutti che non appartengono al piccolo, ma sono invece frutto della storia e dell’esperienza dell’adulto. È la base del condizionamento, un substrato diffuso ed imperante che oltre a descrivere la storia individua di ciascuno, ricapitola l’esperienza di un retroterra tipico di una società influenzata dalla logica del dominio e dallo sfruttamento del più forte sul debole.
Facile reperire l’origine e il retaggio di tali esempi, vista l’eredità storica che seguitiamo a ricalcare e riprodurre, senza ancora dare alle tematiche educative il posto d’onore che meritano circa la riflessione sulla vita.
 

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