IL COUNSELOR FERITO. L’empatia di Chirone e la rinuncia all’infallibilità

Inviato da Nuccio Salis

chirone

L’incontro con l’altro è la scoperta della nostra nudità. Essa coincide con l’accettazione della visione della propria Ombra. In ogni rapporto fondato sulla specularità, è inevitabile che si arrivi a un certo livello di coesione vicendevole, ad un’alleanza destinata in un certo senso a maturare a seconda delle volontà e delle capacità di investimento affettivo-emozionale degli agenti che vi sono coinvolti.

Per questa ragione un counselor non può essere soltanto un tecnologo della comunicazione interpersonale; egli non può lasciarsi suggestionare passivamente dall’illusione del controllo perpetuo delle dinamiche relazionali, e vivere sotto la mitologica cappa protettiva della metodologia. “La scienza senza la poesia è uno scheletro nudo”, scrive l’umanista Danilo Dolci.

 

Intendo dire che la conoscenza e la sapiente applicazione degli strumenti di intervento non esenta mai dall’uso della principale ed immancabile risorsa del dispensatore dell’aiuto: la capacità empatica. E questa non è soltanto una competenza acquisibile da sessioni di training e supervisione. Giammai sarebbe da intendere ingenuamente come qualità posseduta e preformata per via di un equipaggiamento naturale. Così come è un errore affidarsi esclusivamente all’intuito o all’improvvisazione, sarebbe altrettanto sbagliato contare sull’automatismo attivazionale dei motoneuroni specchio. Non è di per se l’eccitazione dei circuiti sinaptici a garantire l’agganciamento sincrono e complementare fra le parti in relazione, in termini di feeling emozionale. Ciò che mobilita la vicendevole compenetrazione simpatetica fra persone è la capacità di abbandonarsi all’altro, di creare uno spazio di accoglienza dove tutto può accadere, una sorta di campo dentro cui è concesso sperimentare, ed ogni potenziale ideativo viene reso noto, senza censure, proprio come nel brainstorming creativo.

Dobbiamo confessare che molto spesso abbiamo assistito, o comunque fatto esperienza indiretta, a vicende in cui una persona sia riuscita a soccorrere, sostenere e restituire alla motivazione vitale altri soggetti in condizioni di malessere e rinuncia esistenziale, per giunta in molti casi ostili e disadattati, o con limitate possibilità di congetture intellettuali. 

Perché accade ciò? Mi sono ritrovato a chiedermelo più volte: per quale ragione una persona del tutto esonerata dalla formazione al counseling ed ai processi funzionali della relazione d’aiuto, si trovi addirittura avvantaggiata nel trovare la chiave di lettura adatta a decodificare il vissuto altrui, pur senza la necessaria dotazione di ausili professionali? Al di la della risposta, la presa d’atto di simili e frequenti avvenimenti, ha portato da qualche tempo ormai i professionisti dell’aiuto, a coinvolgere in un processo strutturato di supporto alla persona, anche le figure significative più prossime nella vita quotidiana del soggetto che riceve l’opera di sostegno. Questo ha modificato certi modelli dell’approccio, in vero troppo rigidi ed edificanti di un fanatico fideismo scientifico, in cui si ritrovano escluse, dall’intervento al soggetto destinatario, proprio le figure più rilevanti a lui legate, e in possesso di informazioni preziose e codici utili per una più corretta ed approfondita conoscenza della persona. In alcuni percorsi di sostegno, il coinvolgimento con terzi, costellati nella rete interpersonale dell’individuo a cui è rivolto il servizio dell’aiuto, non solo è proponibile ma addirittura doveroso, scongiurando la vanagloria di un eccesso di standardizzazione nel  procedimento di conoscenza dell’altro. Giusto per portare un esempio chiarificante, basti pensare a come molto spesso i genitori di bambini mutacici o con altre varietà di difficoltà comunicative, riescono con naturalezza e disinvoltura a interpretare correttamente stati d’animo, intenzioni e contenuti nei messaggi nei loro figli, offrendo spesso vere implicite lezioni sulle esatte modalità di approccio da utilizzare in riferimento alla specificità della persona da trattare.

Dal momento che le relazioni che ci accingiamo a costruire, dovranno avere il sapore dell’autenticità, dovremo essere noi per primi, in qualità di conduttori responsabili dell’esperienza, a rivelarci senza alcun accorgimento artificioso, ma con trapelante semplicità e nudità interiore, in una dimensione di sana trasparenza che prevede anche la copertura di quelle parti non sempre indispensabili all’apporto di un ascolto funzionale. Non si tratta né di essere ipocriti o circospetti, e nemmeno impauriti o prevenuti dall’esperienza dell’incontro; spesso ciò rappresenta invece un forte modellamento che invia l’importante segnale del “sapersi proteggere”; una dimensione inclusa spesso fra le aree deboli dell’interlocutore che si appella alla nostra guida. Chiarito questo aspetto, la domanda che mi risuona spesso è la seguente: può una guida per ciechi essere cieca? L’approssimazione figurativa ci rende obbligati a prenderci cura con costanza e continuità di quella parte di noi che metabolizza l’esperienza e la riporta dentro una sorta di ordine costituito; che la processa dentro un contenitore in cui ciascun vissuto personale tenta di ricollocarsi armoniosamente nel sistema dei propri valori e convinzioni.

Allora, a questo punto, qual è il counselor col più alto potenziale taumaturgo? Mi si concedano queste espressioni, che non vogliono di certo vanificare il ruolo attivo del cliente nella partecipazione al suo percorso di crescita consapevole. Dando per assodato che non siamo i guaritori o i salvatori di nessuno, potrei riformulare il quesito chiedendomi cosa separa la capacità di fare breccia nel mondo altrui, e comparteciparvi visceralmente, da un impeccabile procedura da tavolino con modesti risultati costruttivi nella vita della persona a cui dedichiamo la nostra opera.

Se un cieco non può guidare un cieco, forse però potremmo anche dire che un ferito può comprendere il ferito. D’altronde, è proprio quello che ci insegna il mito greco di Chirone, centauro ferito accidentalmente dall’amico Eracle. Chirone era un medico, e la sua ferita determina la fine della suggestione immaginifica del medico col ruolo fisso del guaritore, e quindi l’unico in grado di conservare e preservarsi la salute. Tale ingenua rappresentazione decade proprio con la ferita di Chirone, nella cui vicenda, però, vi è in seguito un singolare risvolto che offre il pieno senso della morale mitologica: il centauro infatti rinuncia all’immortalità per salvare Prometeo dal supplizio; quest’ultimo infatti si trovava incatenato alla roccia da Zeus per aver rubato il fuoco agli dei e averlo donato agli uomini. Proprio grazie a tale impresa sacrificale, che consiste nella rinuncia all’immortalità, egli risplenderà a nuova vita tramutato in una costellazione, precisamente quella del Centauro. Ciò coincide pienamente con la parabola del Cristo, che nel Vangelo di Matteo declama: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia la ritroverà” (Mt. 16, 24-28). È dunque nella contemplazione del gesto del Sacrificio, che è possibile adempiere o assistere al fenomeno della Resurrezione. Va da se che la mortalità è soltanto apparente. Forse sarebbe più opportuno parlare di fallibilità, spettro non certo meno terrorizzante del concetto comune di morte. In ciascun caso, ogni counselor, prima di avventurarsi nelle latebre gallerie dei vissuti altrui, farebbe bene a conoscere dapprima la vita stessa, con una certa confidenza; ella dovrebbe forse essere a lungo il suo unico interlocutore. Egli dovrebbe conoscere il percorso della luce cominciando dalla tenebra, come nella caverna di Platone o nel viaggio iniziatico di Dante Alighieri. Non è dato raggiungere l’Anima se prima non si passa dall’Ombra, non si può che rimanere estasiati dal sole solo uscendo dalla spelonca, e non si può ambire all’incontro con “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, se prima non si è visitato l’inferno. Che tutto questo valga anche per chi ha deciso di predisporsi a condividere il mondo esperienziale dell’altro da se?

Nel lasciare sospesa tale riflessione, chiudo con una citazione del noto studioso e ricercatore svizzero Carl Gustav Jung:

 

Chi vuol conoscere la psiche umana apprendera' ben poco dalla psicologia sperimentale. e' meglio che appenda al chiodo la toga dello studioso, dica addio al suo gabinetto di consultazione e vada per il mondo, con cuore umano, a vedere coi ...propri occhi gli orrori delle carceri, dei manicomi e degli ospizi, le sordide bettole di periferia, i bordelli e le bische, i salotti della societa' elegante, le borse, i convegni dei socialisti, le chiese, i revival e le estasi delle sette, per sperimentare di persona amore e odio, la passione in tutte le sue forme, ritornera' molto piu' informato, sapra' molto di piu' di quanto gli insegnerebbero poderosi tomi alti un palmo e potra' essere per i suoi pazienti un vero psicologo"
(Cfr. C. G. Jung, “Elementi di psicologia”, Roma, Newton Compton, 1995, p.136.) 

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