Test

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test“A 19 anni vivere può diventare un problema”. Non è una affermazione personale  ma la dichiarazione  d’esordio di Martina, 19 anni appunto, studentessa universitaria del 1° anno di scienze economiche. Il suo ingresso nello studio è deciso: toc toc alla porta , apertura della stessa senza attendere un avanti ed incedere deciso verso la scrivania. Stretta di mano forte prima di catapultarsi sulla sedia con la borsetta in grembo. L’impressione è di una persona che sa quel che vuole. Statura media, corporatura normale, vestita in modo un po’ stravagante. Stivali neri, calze color arcobaleno, vestito nero chiuso da una cintura arancione. Capelli lunghi neri e lisci. Il nero contrasta con il volto pallido, contrasto reso ancor più evidente dal trucco abbastanza pesante. Lo sguardo è triste.

E’ abbastanza sbrigativa nel rispondere alle domande biografiche come se fosse abituata a colloquiare. Parte in quarta nell’elencare i suoi problemi: a 15 anni anoressica e poi bulimica. Diete restrittive, abbuffate, esercizio fisico, vomito a ripetizione ecc. Insomma tutto il compendio di un disturbo del comportamento alimentare. Mettere da parte il problema diventa un problema. Non sono il primo al quale si rivolge: dietologo, psichiatra, psicologo si sono avvicendati nella cura per approdare infine da un chiropratico che sosteneva che tutto dipendesse dalla cattiva masticazione. Dopo questo excursus biografico mi chiede quando le somministrerò il test. “Quale test?” le chiedo. “Ma quello sui disturbi alimentari!” risponde con sguardo stupito. “Perché vuole fare il test?” domando. “Le altre volte, tutti eccetto il chiropratico, me lo facevano”.  Le rispondo che a mio parere i tests hanno un’utilità limitata mentre è più importante che mi parli di sé. Trovo più interessante la sua storia e la sua persona che non riempire quattro caselle. Non c’è verso, pare spazientirsi e insiste col voler fare il test. Il suo sguardo appare più cattivo ma il modo di cambiare continuamente la direzione dello sguardo mi comunica una nota di smarrimento. Ad un certo punto sembra sul punto di piangere e pur non avendo una motivazione razionale mi sento quasi in colpa. Forse, medito, ho sbagliato qualcosa. Sono combattuto se cedere alla sua richiesta o impuntarmi col dubbio di sbagliare in entrambi i casi. D’altra parte devo risolvere la questione in pochi attimi. D’impulso decido di barare proponendole, senza troppe spiegazioni,  “un nuovo test”. Si rasserena e avvicinandosi alla scrivania sorride. Mi ricorda l’atteggiamento infantile di un bambino che ottiene ciò che vuole dopo aver fatto i capricci. Le indicherò delle parole alle quali dovrà aggiungerne altre che le richiamino la parola stimolo.

 

Inizio casualmente con la parola tempo. Scrive quattro  parole : cerchio – pillole – noia – fiori.

Le sue spiegazioni:

Cerchio = comunque ti muovi torni sempre sugli stessi punti e il tempo sembra fermo.

Pillole = devi prenderle a determinate ore e quindi scandiscono il tempo

Noia = il tempo è anche anti-tempo nel senso che a volte non passa mai e quindi è come se non esistesse.

Fiori = nella vita vi sono occasioni nelle quali i fiori sono parte sostanziale come la nascita, il matrimonio, il compleanno e la morte e quindi anch’essi rappresentano in qualche modo il tempo

Comincio ad entrare nella persona e le risposte sono dettate dalla sua esperienza attuale di sofferenza. Il cerchio relativamente alla sua sintomatologia bulimica; le pillole la terapia antidepressiva prescritta a suo tempo dallo psichiatra e mai abbandonata; la noia  a rappresentare la l’immodificabilità del presente e la rinuncia a vedere un futuro; i fiori l’aspetto forse meno cupo nel quale si intravedono aspetti di positività come il desiderio di una propria famiglia e la gioia di un festeggiamento. Le chiedo a quali fiori in particolare abbia pensato : “Rose e orchidee” . Mi sento sollevato, non perché non siano stati citati i crisantemi, ma perché avverto empaticamente che pure lei si è rincuorata.

E’ straordinario come una parola possa diventare la chiave d’ingresso nel mondo di una persona. Non proseguo con ulteriori parole chiave perché ha iniziato a parlare spontaneamente. Si esprime con tono dimesso ma utilizza vocaboli che sono più abituali ad uno psicologo come “intreccio psichico”, “terapia sistemica”, “sviluppo cognitivo” e così via, sintomo di un’abituale frequentazione di studi psicologici. Il suo pellegrinaggio è stato effettivamente intenso ma l’intensità non è certo stata proporzionale al risultato. Lo spettro depressivo è presente nella sua quotidianità se pur con un andamento sinusoidale. Non ha coltivato affetti in questi anni: il suo unico e vero amore, dice, è stato il cibo, amato e rifiutato allo stesso tempo. Non ha amicizie. Anche l’ambito universitario è vissuto come luogo esclusivo di studio. I week end li trascorre generalmente a casa leggendo o guardando la TV. Non riferisce hobbies o interessi particolari. I rapporti in famiglia sono dettati più dalla formalità che da un trasporto affettivo. La madre commercialista è una donna impegnata che non dedica molto tempo alla famiglia e che ha sempre preteso dalla figlia impegno e dedizione alla vita scolastica. Alle faccende domestiche è adibita  una colf moldava presente in famiglia da circa cinque anni. Con Ulita, così si chiama la colf, c’è un rapporto confidenziale. Si confida con lei anziché con la madre. E Ulita le dispensa sempre buoni consigli  che Martina ricambia aiutandola, quando la madre è assente, nelle faccende domestiche. Ulita la sgrida per questo aiuto ma a Martina piace perché è un’occasione per dialogare con lei. La ragazza avrebbe voluto che Ulita si trasferisse da loro dato che trascorre otto ore al giorno in casa ma la madre si è sempre opposta a tale prospettiva.  Forse, dice Martina, essendo Ulita una donna di 45 anni piuttosto carina e senza famiglia, la mamma teme che il padre possa subire qualche tentazione. Lo dice ridendo perché il padre, impiegato in banca, è per usare le sue parole un bacchettone, ligio ai precetti religiosi fino quasi all’ossessione. Quando era piccola il problema religioso è sempre stato motivo di conflitto col padre che la obbligava a frequentare la Messa e il Catechismo . Questo ha ingenerato in lei, che si ritiene peraltro credente, un rifiuto totale nei confronti delle pratiche di fede. La madre  al contrario si professa atea ma non ha mai preso le difese della figlia nei conflitti col padre.

Martina si è trovata in mezzo “tra due opposti” e ciò l’ha fatta sentire più che una figlia “un oggetto da plasmare ad uso dell’uno o dell’altro”. I due genitori non li ho mai visti ne sentiti. Li ho vissuti di riflesso dalle parole della figlia percependo una coppia costituita da due mondi diversi e separati. Ulita è l’unica che la comprende e la incoraggia. E’ l’unica che pare vedere risorse nella ragazza. Risorse che i genitori non vedono. Le risorse di Martina sono la perseveranza, la spiccata intelligenza e una rabbia che intravedo nelle pieghe dei suoi discorsi. Rabbia che indirizza sul cibo “ lo prendo , lo azzanno come un lupo affamato e lo distruggo dentro di me”. La considero una risorsa perché credo che  da quella rabbia può trarre la forza di svincolarsi dal problema che la affligge . Problema che non è la bulimia ma l’affermare se stessa come persona unica e autonoma. La stessa Ulita è una risorsa perché pare essere l’unico vero legame affettivo di Martina. Empaticamente  percepisco calore quando parla di Ulita e freddo quando parla dei genitori. Sorride nel primo caso e s’incupisce nel secondo. La parola amore sembra sconosciuta al lessico familiare. Mi stupisco non poco quando mi dice che i suoi genitori non si sono quasi mai occupati del suo problema alimentare. Per certi versi forse è stato un bene perché non ha accentrato la patologia nelle dinamiche familiari ma dall’altro ha anche lasciato Martina da sola. Le minacce che intravedo sono essenzialmente la terapia antidepressiva,  questa freddezza nei rapporti familiari e il suo isolamento sociale.

A questo punto comincio a pensare quali obiettivi posso perseguire con Martina. Il primo è senza dubbio l’eliminazione della terapia farmacologica. Glielo propongo e se pur con perplessità e un po’ d’inquietudine accetta. Inizierà gradualmente a dismettere le pillole. Nel contempo le suggerisco di proporre ad Ulita un’uscita in centro per fare qualcosa insieme. “Non ci avevo mai pensato” afferma, “l’ho sempre vista in casa mai fuori”. A posteriori mi rendo conto di aver suggerito un’iniziativa che forse mi è stata dettata dall’antipatia verso i due genitori (pur non avendoli mai visti) con l’obiettivo di staccarla da essi e portarla verso Ulita.  Ho inconsciamente accolto la sua rabbia per indirizzarla verso i genitori. Si congeda dal primo colloquio con una stretta di mano vigorosa, un viso più allegro e con l’appuntamento dopo quindici giorni. 

 

Al secondo colloquio si presenta con lo stesso look precedente ma appare più sorridente. Ha autonomamente deciso la settimana prima di non rispettare la graduale eliminazione dell’antidepressivo ma di disfarsene completamente. Connoto la sua scelta coraggiosa anche se la considero un po’ rischiosa per un eventuale effetto di rimbalzo. Comunque pare stare bene alla faccia dei principi di farmacologia ed in ogni caso una minaccia di meno nella sua vita.

Con Ulita è uscita più volte e ne è contenta. Ha scoperto che si possono trascorrere momenti piacevoli nella quotidianità. Ha trascurato un po’ lo studio ma tutto sommato dice “è meglio finire l’Università due mesi più tardi ma godersi un po’ la vita”. Stavolta non parla del suo essere bulimica quasi si trattasse di qualcun altro e non di se stessa. Forse si sta guardando da un altro punto di vista. Mi ricorda la scena del film “L’attimo fuggente” quando gli studenti sono invitati dal docente a salire sui banchi per osservare la classe da un’altra prospettiva. Glelo dico e lei conferma la volontà di vedersi collocata in una dinamica diversa rispetto all’attuale. Desidera andarsene da casa ma per far questo deve trovarsi un lavoro per mantenersi e ciò renderebbe difficile il frequentare l’Università. Nelle sue parole si esprime il desiderio di svincolo dal nucleo familiare e la ricerca di un’evoluzione autonoma. Colgo nel tono delle sue parole l’indecisione di chi vorrebbe compiere una scelta drastica ma non ne ha la forza anche se ciò denota una presa di coscienza della realtà. Mentre esprime tutto ciò s’intristisce come a sottolineare quest’incapacità di scelta.

A questo punto ritengo importante che Martina faccia delle esperienze che le aprano al mondo delle possibilità.  Mi chiede quale fosse stato il risultato del “Test.  Il risultato, rispondo, è l’emersione del suo desiderio, l’uscire con Ulita, il vivere senza le pillole. Sgrana gli occhi come per dire che non metteva in relazione questi avvenimenti con il “test”.

Martina successivamente farà diverse esperienze di cui una culminante che la porterà a dare lezioni ad un ragazzo frequentante la scuola media portatore di un grave handicap fisico. Tale esperienza le ha fatto constatare quanto ogni persona se pur condizionata dai problemi e dalle circostante sfortunate della vita sia comunque  fonte di risorse per se e per gli altri e ciò l’ha aiutata a riformulare la propria domanda di senso.

In quattro mesi la sua parte  bulimica scompare. Non è andata a vivere da sola ma si è riappropriata di sé. L’ambiente freddo familiare è rimasto tale ma Martina ha ormai il suo mondo che anche con l’aiuto di Ulita, forse il vero counselor della situazione, si è aperto all’esterno, all’amicizia e al tempo per sé stessa.

Un giorno navigando in Internet mi imbatto in una affermazione di Voltaire che riassume l’esperienza di counseling con Martina : Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi”.

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