Vivere la propria vita come un progetto e non come un destino


progetto di_vitaLa vita ci mette davanti situazioni ed eventi più o meno favorevoli o piacevoli, a volte dolorosi o drammatici. Non scegliamo cosa ci succede, possiamo solo scegliere come affrontarlo.

E nella moltitudine delle opzioni umane, abbiamo principalmente due piste: pensare che possiamo in qualche modo fare qualcosa (e anche accettare in modo più obiettivo che non ci puoi fare niente è fare qualcosa), oppure pensare che ci tocca subire.

La responsabilità personale è un concetto centrale nelle psicologie umanistiche e nel counseling.

 

È un valore, una convinzione intensa da cui nascono i nostri comportamenti e le metodologie di lavoro e di aiuto. Il counselor aiuta il cliente ma non si sostituisce a lui, nè lo cura, gli dà una mano a recuperare, su quella questione, su quel disagio, il senso che lui cliente è responsabile di come lo affronta. Responsabilità personale è un valore anche di vita, non credo che la vita del counselor ed il suo lavoro possano essere così lontani o in contraddizione, sono le tipiche due facce della stessa medaglia.

Il punto di partenza quando siamo in difficoltà in genere non è Ora vedo come affrontare questa situazione, viviamo il problema come esterno da noi, qualcosa che ci blocca o ci mette in difficoltà, e aspettiamo che qualcosa succeda, che le cose cambino, che gli altri intorno a noi cambino.

Riportare il problema dall’esterno all’interno è il compito del counselor, che accompagna il cliente nel vedere come lui stesso fa parte del problema e come lo può affrontare. Non è una convinzione strumentale, il counselor pensa davvero che il cliente abbia risorse ed energie che possono essere mobilitate in questo cambiamento. Così facendo, riportando il problema all’interno, si abilita il cliente ad affrontare la situazione, solo vedendo come siamo coinvolti vediamo come possiamo incidere, e solo se ci sentiamo responsabili di noi stessi e del nostro comportamento.

La responsabilità personale non è un valore così diffuso nelle diverse relazioni, e all’inizio della relazione di aiuto il cliente si aspetta che sia il counselor a risolvere il problema. Perciò il cliente può diventare accusatorio e svalutante (Spendo il mio tempo e i mei soldi per sentirmi dire che devo risolvere io il mio problema, tu non fai niente per me, sai solo farti pagare) oppure autoaccusatorio e autosvalutante (Sono talmente incapace che nemmeno con un counselor riesco a migliorare). Lo scaricabarile sugli altri oppure sul “fato” che l’ha creato debole e inetto: così il cliente si sottrae alla propria responsabilità e senza saperlo si adopera per mantenere il problema per cui si è rivolto al counselor.

 

Il percorso di counseling è una cosa delicata, ma si centra su questo, sul riprendere la propria responsabilità, sul rimetterla al centro. Per farlo, serve una alleanza tra cliente e counselor, anche emotiva. Il cliente sente che io counselor sono dalla sua parte anche quando non crede che possa aiutarlo, perché mi sta dando dell’incapace o perché lo sta dando a se stesso. Serve una alleanza relazionale, il cliente si sente accolto, anche o proprio quando fa così. Stare nella relazione col counselor lo fa sentire bene, perché non si sente giudicato, si sente compreso e dentro un clima di equilibrio emotivo anche quando lui/lei in equilibrio non è.

 

Il percorso ha i suoi ritmi ed i suoi tempi. Quando va tutto bene, pian piano la responsabilità personale viene vissuta come possibilità, come il riappropriarsi della propria energia e competenza per affrontare la situazione e non più come scaricabarile del counselor.

Piano piano la responsabilità personale diventa potenza, di decisione ed azione. L’equilibrio anche emotivo e il sentirsi saldi si “contagia” dal counselor al cliente che negli ultimi incontri si pone in modo diverso, più consapevole, più soddisfatto di sè e non di rado grato verso il professionista (occhio all’ego!). 

 

La responsabilità personale una volta acquisita è una rivoluzione copernicana. È una base che se vissuta veramente ti aiuta ad uscire dal copione, almeno per quella parte. È una base per uscire dallo schema rigido, che prescrive che di fronte a un problema non puoi farci niente perché gli altri non sono collaborativi o adeguati oppure non puoi farci niente perché adeguato non sei tu, è uscire dallo schema che regola la tua vita da una vita e che proprio per questo ti pare valido e verificato.

 

Vale anche per le nostre risposte emotive. Ad esempio, spesso chiedo qual è la differenza tra queste due frasi: Tu mi fai arrabbiare!e Io mi arrabbio. E chiedo anche: quale percepite come più potente, più “pesante” nel senso di incisiva? Solo dopo un po’ chi è lontano dal valore della responsabilità personale accetta che la seconda affermazione sia più influente, perché più assertiva. Non sono gli altri responsabili delle mie reazioni ed emozioni, sono io, e le vivo in modo più pieno, meno stereotipato, meno copionale. Inoltre Tu mi fai arrabbiareè contestabile – Chi? Io? Nooo, non è vero!, mentre Io mi arrabbionon lo è. È mia responsabilità se mi arrabbio o meno, e non colpa tua, e se lo decido posso arrabbiarmi, ma posso anche decidere altro.

 

Vivere il valore della responsabilità personale produce una diversa relazione prima di tutto con se stessi, una convinzione diversa delle proprie possibilità, che nel linguaggio aziendale, e non solo, si chiama leadership. Vivere il valore della responsabilità personale produce più leadership.

 

Leadership significa anzitutto auto-legittimarsi, esercitare leadership verso se stessi. Per sviluppare leadership dobbiamo imparare a non aderire al modello che altri hanno disegnato per noi. È un richiamo alla responsabilità personale. A vivere la propria vita come un progetto e non come un destino. Paolo Bruttini 

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