Mi aiuti ma si sbrighi! Pregi e limiti del brief counseling

Inviato da Nuccio Salis

corridorePer differenziarsi dalla psicoterapia, il counseling ha dovuto, almeno all’inizio della sua storia, marcare un range di interventi inferiore numericamente rispetto a quelli indicati da altre proposte e tecniche di intervento di aiuto e sostegno psicologico alla persona. Forse, una sorta di riverente sudditanza nei confronti della psicologia e del suo bollino blu di certificazione accademica e scientifica, ha spinto dal principio questa nuova impostazione a trovare differenze a livello quantitativo, rendendosi poi conto, col maturare delle ricerche e della rigorosità dialettica, che il vero problema risiede nella chiarezza dell’inquadramento epistemologico, non tanto nel numero di volte che si offre la propria prestazione di aiuto. Se il problema fosse legato alla misura quantitativa del proprio intervento, probabilmente l’intervento di counseling si avvertirebbe come una sorta di sorella minore della psicologia clinica. Noi facciamo meno interventi perché siamo meno capaci? Credo di no. Noi facciamo meno interventi perché gli strumenti che adottiamo si prestano ad una applicazione nella realtà temporale presente su un individuo integro sotto l’aspetto della struttura di personalità. Questo non significa essere meno dotati dal punto di vista funzionale, significa semplicemente avere chiari confini di intervento e possedere abilità di lettura circa un complessivo quadro da destinare eventualmente ad altri ambiti. In pratica, un bravo counselor sa anche inviare, riconoscere quando è il caso di reindirizzare un cliente ad un diverso trattamento. Occorrono competenze etiche e deontologiche e,pertanto, un’ottica differenziale nei confronti della psicoterapia riguarda la dimensione qualitativa fra le due tipologie di intervento in questione, ed è questa e soltanto questa la caratteristica che rende counseling e psicoterapia diversi fra loro. Fondamentalmente, un dibattito sul numero degli incontri fra professionista e cliente non esiste più. L’approccio contemporaneo, infatti, punta ad organizzare le volte in cui operatore e cliente dovranno confrontarsi, sulla base delle esigenze del secondo. Odiernamente si cerca di misurare con quanta più precisione possibile la reale portata della richiesta di aiuto, e di saggiare preliminarmente quanto un cliente sia disposto ad accogliere e condividere l’immissione di un intervento di aiuto nella sua vita. Si rivolge ascolto verso la sua personale struttura di difesa, verificando se e quali resistenze attiva, prestando al contempo molta attenzione alla sua disponibilità soggettiva, in termini di impegno psicologico e, soprattutto, temporale.

Con l’avanzare dell’era contemporanea e tecnologica, l’uomo occidentale è stato difatti pervaso da ritmi sempre più accelerati del proprio stile di vita, soprattutto legati ai tempi ed alle esigenze della produzione sul lavoro, del rendimento quantitativo delle sue prestazioni. Le parole prefissate da “Fast” si sono diffuse abitualmente, fino a che la velocità divenisse addirittura un valore, un principio da stimare, apprezzare, ricercare; un obiettivo a cui puntare e dal quale rimanerne sedotti. Dentro una struttura temporale così rapida, da gestire pressoché esclusivamente secondo una prospettiva quantitativa, il soggetto ha perso finanche la nozione di tempo libero. Il tempo libero è diventato semplicemente il tempo residuo, da riempire con altrettanta fretta, senza piacere, senza rilassamento, spinti dalle mode omologanti la cui non adesione apre la paura del vuoto e della solitudine interiore; il terrore di sentirsi out-group. Ovvero si paventa l’idea di diventare ancora più anonimi fra la folla. Questo triste scenario, tipica cornice della devianza “normale”contemporanea, ha perfino influito nel dare gli albori ad un approccio all’aiuto alla persona. È emersa, cioè, l’esigenza di offrire un modello di prestazione di aiuto alla persona in grado di tenere debitamente conto della sequenzialità e della caratteristica complessiva della cornice temporale soggettiva, soprattutto in termini quantitativi. Poiché in una società che corre e che accelera, le persone non possono permettersi nemmeno di ammalarsi, nemmeno le loro difficoltà esistenziali possono essere consegnate a prolungate attese di risoluzione. Quindi, slogan come usa e getta, tutto e subito, vinci ora, semplice e facile, hanno finito col dipingere realisticamente un atteggiamento tipico di chi non ha né più voglia e, soprattutto, nemmeno più tempo, per sbrogliare intricati grovigli magari troppo impegnativi e toccanti per la propria intimità emozionale ed affettiva. Quando era di moda la psicanalisi, la gente aveva del tempo da spendere, soprattutto se altolocata ed imbellettata. Nei salotti “chic”, aver frequentato studi di più o meno celeberrimi dottori psicanalisti era considerato un vanto. Un setting psicanalitico equivaleva alla odierna palestra, ed i guru psiconniscienti di allora equivalevano agli attuali modellatori di ventre piatto. Prima si cercava di parlare con l’anima, ignorandola, mossi solo da uno sfizio da poter sfoggiare in seguito nei salotti della gente “per bene”; oggi l’interlocutore è soltanto il corpo, perché per capire l’anima… ci vuole del tempo. Ma ecco che l’ingegneria psicoterapica ha ideato nuove attrezzature, per venire incontro ai bisogni (falsi) dell’uomo contemporaneo, così avvinto dal tempo. Il trattamento per l’individuo che non ha tempo da perdere è stato individuato nella psicoterapia breve. Per l’uomo moderno conta il risultato, non il processo. Da questi principi si sviluppa, ispirandosi ai lavori pionieristici della indiscutibile figura di Milton Erickson, l’intervento cosiddetto di counseling breve (BC) altrimenti detto colloquio di counseling orientato alla soluzione (SOIC). Ora, a parte le precedenti disquisizioni, l’opera ed il contributo di Erickson nel campo della psicologia clinica sono inconfutabilmente meritorie. Per fortuna in questo settore c’è spazio per il dibattito e la critica. Sceglierà dunque ciascun lettore, come leggere il senso di un intervento di counseling breve, semplicemente sulla base dei principi che tale modello ci illustra e ci propone. Il principio conduttore dell’approccio BC è che deve emergere la soluzione e non il problema. Se si costruisce e si mette in evidenza la soluzione, va da se che il problema si dipana e si dossolve. Quindi, il focus è interamente spostato sulla ricerca della soluzione. Essa deve essere cercata e trovata in tempi celeri e sbrigativi, con un range che va da un minimo di uno o tre colloqui fino ad un massimo di cinque o dieci, solo se strettamente necessario. Dove va cercata la soluzione? Il principio cardine del counseling non viene tradito: la soluzione è nel cliente. È insita nel quadro dei valori e della rappresentazione di mondo di quell’altrui da noi. Ergo, va considerata la possibilità che il cliente abbia già fatto un tentativo o più per affrontare la questione che descrive, e magari è possibile che una sua certa azione possa già aver prodotto risultati efficaci. Si cercherà di valorizzare quindi le qualità positive del cliente, ripescandole anche dal suo repertorio storico di cose già fatte. Anche se, è bene sottolineare, al tempo stesso nel BC si rimarca una forte valenza verso il tempo del qui ed ora. A fronte di tutto questo, un counselor con orientamento SOIC, farà in genere le seguenti domande:

_ Quali sono i momenti o le occasioni in cui ha fatto qualcosa per cui è andata meglio con questa difficoltà?

_ Che cosa fa per non peggiorare questo impiccio?

_ Cosa fa di corretto per affrontare questo impedimento?

_ Cosa può fare per continuare ad adottare questa soluzione congruente?

_ Quali sono i suoi obiettivi oggi?

 

Ciò che viene scavalcato è il tempo dedicato al colloquio come strumento attraverso cui si costruisce la relazione e si salda l’alleanza reciproca fra counselor e cliente. La chiave di lettura guida di tale approccio diventa la ricerca di una soluzione “perfettibile”, che già è presente nel repertorio delle soluzioni adottate dal cliente, ma che non ha avuto del tutto, oppure l’ha avuto in tempi limitati, un discreto impatto di successo nella risoluzione della vicenda che crea la difficoltà personale.

Come viene elencato dallo stesso gruppo condotto da Steve de Shazer, lo psichiatra americano che a metà degli anni Ottanta sperimentò tale forma di intervento, le caratteristiche fortemente descrittive di tale approccio sono le seguenti:

_ Il compito principale della consulenza consiste nell’aiutare la persona a sperimentare eventuali piani di azione alternative o integrate a quelle a lei note.

_ Indirizzare il problema verso soluzioni già esistenti.

_ Anche un piccolo cambiamento può generarne a catena di più grandi.

_ Formulare gli obiettivi in termini positivi ed incoraggianti, per aprire alla parte applicativa e concludere nella concretezza.

 

È intuibile come tale modello si presti facilmente a costruttive reinterpretazioni o revisioni, nella speranza personale che, se accelerassimo ancora, il BC rischi di diventare poi un VBC, un Very Brief Counseling, per l’uomo che non ha tempo né per il problema né per la soluzione.

Meditiamo.

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