La mente ha le sue emozioni che l'emozione non conosce. Verso l'integrazione Ragione/Sentimento

Inviato da Nuccio Salis

emozioni della menteUno dei dualismi generati dalla cultura occidentale della disintegrazione, ci riguarda proprio da molto vicino. Direi anzi che è proprio insito nella nostra natura. Si tratta del legame intrapsichico fra ragione e sentimento. Il paradigma di una sempiterna lotta titanica fra queste due entità ha ispirato numerosi letterati e prodotto innumerevoli opere d’arte visiva. La forza creativa che tale tema è capace di eccitare è giustificata dalla rilevanza di questa coppia di elementi che, come due linee parallele, possono viaggiare fianco a fianco nell’infinito… senza incontrarsi mai.

È proprio così? La scienza e la filosofia non hanno potuto fingere sulle implicazioni di tale fenomeno, sulla sfuggevolezza imponderabile di tale mistero; entrambe non hanno potuto evitare l’incontro con questo rompicapo di non semplice soluzione. La prima, che ha cercato essenzialmente di ammantarsi di una cornice di autorità sostenendo che solo nelle unità di misura del tangibile e del visibile si manifesterebbe la forza inconfutabile della verità, sembra essersi inimicata la dimensione profonda, emozionale, considerandola come un disturbo, una fastidiosa interferenza che si interpola nella necessaria asetticità sentimentale della ricerca e della sperimentazione. Il risultato di questo approccio è una condizione di semicecità che ha contribuito (se non addirittura promosso) una visione parcellare dell’essere umano, negandogli l’accesso alla sfera della primordialità animica, sottraendogli spazi di trascendenza e oscurandolo di paure esistenziali, molto più di quanto, paradossalmente, abbiano fatto le superstizioni contro cui gli stessi cultori del “lume” sollevavano le loro contro riflessioni. Un paradosso che è di per se sufficiente a smontarne un altro: la pretesa di oggettività scientifica. Chi costruisce dogmi nel nome di una visione a senso unico sta al tempo stesso negando le sue stesse convinzioni di neutralità e “freddezza” rispetto all’oggetto di studio. La teoria dello scienziato, se costui se ne accorgesse, non sarebbe altro che una rappresentazione di un ipotesi di realtà che ben si allea con la sua dottrina di vita, figlia di tutto il relativismo valoriale che egli ha assunto come costrutto indiscutibile ed immanente. D’altra parte, una certa filosofia ha altrettanto insolentemente incorniciato il suo oggetto di studio dentro una visione eccessivamente idilliaca, romantica, magari suggestiva ma troppo distante dal principio di realtà.

Forse Voltaire e Rousseau dovrebbero smetterla di litigare. Unendo le loro rispettive prospettive, piuttosto, potrebbero ottenere un’accettabile e proponibile sintesi che può sfociare in una visione complessiva e sincretica dell’essere umano.

L’impegno di tale opera è stato assunto nell’ambito delle scienze psicosociali, e sembra che si abbia la piena intenzione di seguire questa direzione, ovvero applicare un modello olistico, dove sistematicità e globalità siano le parole chiave di un approccio che conduce verso una considerazione integrata di se. Il fatto che la ricerca assuma questa declinazione è importante in quanto aumenta la nostra consapevolezza, e con essa la capacità di mobilitare le nostre risorse e optare verso percorsi di crescita maturi che promuovono e tutelano il nostro benessere.

Il superamento del dualismo Ragione/Sentimento, se da una parte può legittimamente conservare tutto il suo fascino evocativo letterario, nel versante dell’aderenza al reale, mediante strategie efficaci di coping e problem-solving, trovo invece più sicuro che ceda il passo a modelli di lettura interpretativi che si dirigano all’indirizzo di ipotesi integrate. In pratica, è possibile pensare (e sentire) che Ragione e Sentimento possono interloquire, possono avviare un dialogo, seppur utilizzando linguaggi e codici di significazione differenti. In realtà già lo fanno, ma senza un accurato monitoraggio meta cognitivo ed introspettivo, tale processo viene subìto, proiettandoci dentro l’esperienza del sentirci come tirati da due direzioni diverse, come oggetti di un tiro alla fune. Contesi fra le “ragioni” del Sentimento, ed i “sentimenti” della Ragione, ci scindiamo secondo la modalità egodistonica, producendo confusione, immobilismo psichico, paralisi, mancanza di assertività e incapacità di scegliere e riconoscere i bisogni autentici.

In assenza di conoscenza e di capacità di contatto con se e di autovalutazione, tale esperienza può gettare dentro uno spiacevole e tetro anfratto di dolore e malessere.

Dunque, spiegare o vivere le dinamiche umane in modo squisitamente o “intellettualistico” o esclusivamente “sentimentale” può farci perdere senza farci prima apprezzare l’interezza della nostra struttura. Lo hanno ben capito, nel tempo, tutti gli studiosi di personalità e di coloro che si sono impegnati nel tentativo illusorio di incasellare il fenomeno dinamico della personalità dentro tipologie ben delineate, infallibili e sicure. Così come lo hanno capito coloro che hanno inteso l’intelligenza come un evento psichico legato a fattori misurabili, statici, fotografabili in seno all’individuo una volta e per sempre. L’approccio psicometrico ha aperto una falla di sproporzionate dimensioni durante la sua navigazione verso la scoperta dell’intelligenza. L’ampliamento del concetto di intelligenza, in particolar modo nella forma dell’intelligenza emotiva, ha definitivamente destinato ad un tramonto senza più alba tutti quei saccenti pregiudizi diagnostici scaturiti dal mito del Quoziente Intellettivo. Lo psicologo americano Daniel Goleman ci spiega e soprattutto ci dimostra che il QI da solo non rappresenta affatto un dato predittivo sull’eventuale successo o insuccesso adattivo della persona, così come spesso non spiega il decorso della propria carriera, della popolarità sociale e della buona qualità delle relazioni interpersonali e dei propri valori etici. Il QI è un’informazione vuota se non trova un reale ancoraggio nell’espletamento di una forma di intelligenza emozionale, alfabetizzata rispetto ai propri sentimenti, capace cioè di contattarli, identificarli, collocarli congruentemente e appellarsi alle doti più logiche e pianificatrici della “mente”, per avviare un dialogo costruttivo con la stessa. Quindi il Quoziente Intellettivo (QI) deve essere considerato parimenti e in modo integrato assieme al Quoziente Emotivo (QE); altrimenti come dato isolato sarebbe come accontentarsi di sapere che il PIL del proprio Paese è virtuoso ed in crescita, nel mentre crescono e dilagano sacche di estrema penuria e disagio.

D’altronde, la relazione fra sistema del pensiero e stati emozionali è stata anche messa bene in evidenza dallo psicologo statunitense Albert Ellis, il quale ha saputo descrivere chiaramente come i nostri schemi di ragionamento, inferiti dalla nostra esperienza ed elaborati secondo la nostra personale visione di mondo e il nostro sistema di credenze, siano in grado di influire sui nostri vissuti, che a loro volta possono fungere da rinforzo e di conseguenza fortificare tali convinzioni, cercandone conferma. Da questo sfuggente e potenzialmente pericoloso cortocircuito nascono appunto i virus, secondo l’espressione propriamente utilizzata da Ellis.

Sembra dunque che, all’insegna di queste corpose conoscenze, sia da tenere in saggia considerazione la necessità di promuovere un approccio integrato che sappia guidare l’essere umano alla riscoperta della sua Unità primigenia, conducendolo alla piena assunzione di consapevolezza circa il suo valore olistico.

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