Controtransfert: il tabù dell'amore

Inviato da Nuccio Salis

counselor con giovane“Venga pure, e si sdrai sul lettino”. Difficilmente nell’immaginario collettivo questa immagine ormai archetipica tenderà a scomparire. Dobbiamo aspettare Carl Rogers per poter destruire ufficialmente questo setting così obsoleto, controllore, rigido, interpretativo e direttivo. Con Rogers, l’altro diventa “il prossimo mio”, e il paziente diventa cliente. Non è soltanto un cambiamento di vocabolo ne giammai una vuota espressione. Con il termine “cliente” si è sottratta l’esclusiva della relazione di aiuto ad un paradigma di intervento fondamentalmente medicalizzante, sempre alla ricerca di un sintomo, di una diagnosi, di una nomenclatura clinica da incasellare nelle gabbie nosologiche di manuali e corollari statistici. Rogers ha decisamente umanizzato il trattamento dell’aiuto, ha sfidato il rischio del contatto ravvicinato con l’altro.

Ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di “toccare” i sentimenti del suo prossimo, di guardarlo negli occhi, di porvirsi frontalmente, senza ostacoli, cattedre o barriere, riducendo, senza mai grottescamente annullare, quella necessaria asimmetria che è garanzia per il cliente di poter contare su una persona competente che può aiutarlo a riconoscere ed a sviluppare da sè gli strumenti del problem-solving. Con Rogers l’Io si affaccia nel Tu, sfida l’abisso, squarcia il velo di Maya, si cala nel profondo altrui con la consapevolezza che quando riaffiorerà nemmeno l’Io sarà più lo stesso, purchè protetto dallo scafandro di un’empatia matura, che sa discernere, osservare, con uno sguardo neutro ma “caldo”, in un al di qua dai confini aperti ed accoglienti. Le radici di questo approccio umanizzante, che genera e rigenera chi vi è coinvolto ad ogni titolo, si ritrova datato in un aneddoto che vede protagonisti uno degli uomini di scienza di maggiore spessore intellettuale e spirituale che abbiano temporaneamente visitato la Terra, ed una ragazza raggiunta dal marchio diagnostico di “isteria”. Si parla di Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein, il primo non avrebbe bisogno di presentazioni: medico psichiatra fondatore della psicologia analitica, capace di riportare la psicologia stessa alla sua vocazione originaria: venerare la psychè e abbandonarsi leggeri e sedotti dal suo anelito compenetrante di mistero.

La seconda una donna che ebbe a modo di realizzare grandi imprese nell’ambito dei teoremi circa l’inconscio e delle opere pedagogiche che riuscì a realizzare. I loro rispettivi mondi si incontrarono al primo reciproco sguardo. Impaurita lei, curioso lui, desideroso di capire e arrivare a sondare l’essenza autentica e primigenia della persona dietro la Persona; di quel “Tu” intrappolato nella maschera di un’esistenza senza rotta. In quell’incontro si stava incorniciando un memorabile scenario indelebile che si è ammantato di immanenza. “Niente farmaci, niente isolamento, niente assurdi sistemi contenitivi. Lei parla, ed io la ascolto”, si pronunciò così il dottor Jung. “Lei parla, ed io la ascolto”, non ho potuto fare a meno di riscriverla, è una frase storica, che da inizio ad una svolta epocale nell’ambito del trattamento clinico e della relazione di aiuto; forse, NASCE la relazione di aiuto, in quello studio medico di quell’ospedale in Svizzera.

E il dottor Jung, forse pilotato dal suo inconscio ribelle verso la figura del grande maestro insignito di autorità con tanto di discepoli, finì per violare la legge, il dogma, l’infrangibile sentenza scritta e ripetuta da Freud ai suoi allievi: mai innamorarsi di una paziente! Oggi lo chiamiamo invischiamento, diffusività dei propri confini identitari nell’altro, con immaginabili e inimmaginabili implicazioni deontologiche. E questo perchè IO più TU non può fare NOI, non nell’ambito dell’intervento professionale dell’aiuto, e ciò mi trova d’accordo, non penserei per un solo istante alla possibilità di confutare questo indissolubile principio. Perché, allora, mi chiedo, frantumare quel tabù ha dato luogo a una delle più belle e suggestive pagine di un percorso di guarigione inteso come riappropriazione della propria vita?

Ed è stata una riappropriazione piena, autonoma, consapevole. Non voglio con questo propendere a favore del comportamento del dottor Jung che, se sanzionabile eticamente secondo il codice professionale, ha svestito e stracciato i panni del dottore buttandosi a capofitto dentro la vita privata della sua paziente; andandoci a teatro, al ristorante, a casa sua, consumando con essa un amore che lo portò a tradire su due fronti: l’impeccabile moglie e l’indiscutibile maestro. Lui, che pochi giorni prima la testava mediante numeri, misurandole gli impulsi nervosi e registrandole i tempi di reattività verbale, si sarebbe fatto da li a poco travolgere da un impeto di eros e di desiderio a cui si sarebbe abbandonato come compiaciuto da quel motto di libertà. Perché se lei aveva bisogno di un po’ dell’equilibrio psichico del dottore, lui aveva bisogno di un po’ della sua pazzia.

Credo che questo ci insegni qualcosa, un qualcosa sul completamento complementare fra esseri umani, determinato dalla magia di un incontro, costruito dalle trame della sincronicità, come ci insegna lo stesso Jung. E le parole che non trovo, su questo reciproco avvicendarsi animico, sono nascoste e al tempo stesso svelate nell’immagine in cui vengono ripresi nell’atto di congiungersi, quando lui assume una netta posizione femminina. A quel punto qualcosa mi suggerisce che spesso la soluzione è nell’imponderabile, che non ha bisogno di soluzioni e, per coglierlo, non bisogna fare nulla, fuorchè essere.

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