Diventare un counselor: opinioni opinabili.


io-voto-siLe strade di vita di ciascuno sono lunghe e spesso tortuose. Almeno la mia lo è stata.

Le strade di formazione di ciascuno possono invece portare in luoghi certi sin dai primi passi, così c'è chi ha scelto subito di voler essere un counselor e chi, invece, è approdato su questa riva dopo navigazioni in mari contrassegnati da altri nomi. Almeno per me così è stato.

Ho letto molti articoli interessanti su questo sito, frutto di studi e di ricerche, ma oggi che ho deciso di entrare in questa comunità anche come counselor, la prima esigenza che ho sentito è di condividere con chi legge il senso di questa scelta lavorativa. Ciò soprattutto alla luce delle tante discussioni relative a chi dovrebbe o meno esercitare la professione.

Capisco bene il punto di vista di chi sostiene che il counseling dovrebbe essere appannaggio solo di alcune professionalità, credo che sia a dir poco irritante - per chi ha studiato molto e si è impegnato altrettanto - ipotizzare che qualcuno con una formazione meno approfondita possa agire come se possedesse strumenti e competenze che di fatto non ha.

Lo capisco e lo condivido.

Purtroppo però, le conoscenze e le competenze adeguate a svolgere una professione di aiuto, non sono solo di chi ha scelto o meno un tipo specifico di laurea, piuttosto sono da considerarsi una risorsa acquisita da coloro i quali hanno consapevolmente scelto che tipo di individuo e di professionista essere. 

Individui che hanno investito per questo ed in questo: tempo, fatica, volontà, denaro, equilibrio, emozioni, pensieri ed esperienze. Individui che hanno un dignitoso curriculum che consente loro di disporre di solidi criteri di azione e decisione. Individui che si sono sottoposti e si sottopongono costantemente a percorsi di crescita, a supervisioni altamente qualificate, che sono in terapia e intendono restarvi, che si aggiornano, che si specializzano, che rispettano un codice deontologico, che stimano le competenze altrui, dandole per buone fino a prova contraria. 

In tal senso ritengo che le diverse strade formative intraprese siano un enorme vantaggio per tutti: aprendosi alla conoscenza reciproca, counselor, psicologi, psicoterapeuti, mediatori, assistenti sociali, educatori, formatori ecc. diventano l'un l'altro un aiuto e non una minaccia.

Parlo per esperienza diretta: io ho accompagnato molte persone che avevano una fortissima resistenza anche solo ad ipotizzare di rivolgersi ad uno psicologo (e maggiormente ad uno psicoterapeuta), a maturare un'idea differente, a reperire e a comprendere  le informazioni per capire in cosa consistono i diversi approcci di intervento, ed infine a decidere se e come rivolgersi ad un professionista qualificato, a divenire consapevoli dell'interlocutore con cui volevano interfacciarsi, se volevano che fosse di sesso maschile o femminile...

Insomma ho sperimentato in prima persona che il counseling può essere molte cose: un atteggiamento personale, un bagaglio tecnico, un modello, ma comunque lo si voglia definire, una cosa resta assodata, ed è che il counseling è una professione specifica che si distingue ed al tempo stesso si integra con le altre, che ha il suo preciso ambito di intervento, nonché la sua sacrosanta dignità di esistenza.

Stessa cosa dicasi per chi si è impegnato molto ed ha studiato altrettanto per raggiungere questo obiettivo.

Mi sorge un dubbio: che il problema vero sia una questione commerciale?

La gente si rivolge forse più volentieri a qualcuno che non associa all'ambito medico e a quello che, nel  linguaggio più comune, viene definito "strizzacervelli"?

Potrebbe darsi, ma io resto della mia opinione che, come termine vuole, è opinabile.

Credo che anche da un punto di vista commerciale ci si possa rinforzare reciprocamente, anziché danneggiarci. Altrimenti replicheremo la nota storia degli indiani di America, che rimanendo divisi in tribù, non hanno avuto chances quando una forza più grande ne ha minacciato i territori.

La domanda che mi faccio sempre è: come posso dire ad un cliente che è opportuno cambiare ottica e trovare una strategia collaborativa, se poi, quando si tratta di mettere in pratica detto assunto, io vado nella direzione opposta? Anche porsi in discussione in modo rigoroso e continuo denota preparazione e competenza, non è tutta e solo una questione di piano di studio.

Mi piacerebbe leggere di contributi collettivi che mirano a migliorare le differenze di campo, che hanno come scopo il rinforzo delle reciproche definizioni, che vogliono collaborare allo scopo di formare una società incline all'accoglienza, invece ogni giorno la mia casella di posta elettronica riceve cumuli di note su sentenze, cause, interrogazioni e via discorrendo.

Che peccato e, soprattutto, che spreco.

Di cervelli e di capacità innanzitutto, che vengono messe al servizio del peggioramento collettivo.

Cambiamo?

Io voto sì.

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