Difficile, molto più difficile condividere...la gioia dell’altro piuttosto che...


gioia

               Potrà sembrare strano, eppure l’esercizio più difficile che a ciascuno di noi può essere richiesto nella relazione con l’altro è quello di condividere la sua gioia, sì proprio la gioia o comunque una situazione emotiva di piacere benessere soddisfazione gratificazione.

              Quando mi sono soffermata a rifletterci (non molto tempo fa) sono rimasta quasi incredula io stessa e ho subito cercato esempi e condizioni che mi aiutassero a comprendere meglio: avevo sempre creduto, come credo molti tra voi, che la fatica più grande che ci possa essere chiesta sia quella di condividere il dolore che l’altro ci porta, un’emozione negativa, una difficoltà, il pianto e senza dubbio questa resta una difficoltà.

Conosco persone –non poche- che addirittura avvertono fisicamente malori solo ad entrare in ospedale a far visita ad un malato, al solo odore di prodotti disinfettanti e simili, così come sono piena di ammirazione per quelle –veramente poche- che riescono con il sorriso e l’energia positiva che hanno a comunicare con la persona in difficoltà, con il diversamente abile, sanno “trattarlo” con una naturalezza che è prodigiosa ai miei occhi perché, appunto, sono la dimostrazione che loro vedono “oltre” la semplice evidenza, contattano la persona che trovano in tutto simile a loro.

E dunque ero portata a credere che sia più che difficile condividere il dolore, perché condividere significa in definitiva riuscire a comprendere e sostenere l’altro, significa rafforzare in lui o in lei anche il più piccolo soffio di positività, significa in una parola accettazione della condizione dell’altro e non della condizione oggettiva, bensì di come quella condizione è vissuta dall’altro.

Mi sono chiesta come mai questa consapevolezza mi sia arrivata ora, alla mia età non proprio giovane, e se in qualche modo ne sia una motivazione l’aver deciso qualche anno fa, dopo più di trentacinque anni di “colloqui” con i miei studenti nella secondaria di II grado, di occuparmi di comunicazione e del ruolo di agevolatore nella relazione d’aiuto anche con adulti.

Studiando ascoltando e riflettendo sulla comunicazione e la relazione tra individui, in questi ultimi anni ho sentito i grandi teorici e maestri ripetere quanto fosse importante per il counselor l’empatia e l’accoglienza, l’accettazione della condizione di chi chiede aiuto, l’accettazione di quel disagio momentaneo che la persona porta per aiutarla a ritrovare le proprie energie nascoste inconsapevoli.

Con profonda convinzione cerco di mettere in atto ogni elemento –tecniche, strategie, risorse personali mie e della persona che ho di fronte- che possa aiutarmi a realizzare questo splendido compito... e ora mi scopro consapevole, forse proprio per aver aiutato le persone che si sono rivolte a me a risolvere il loro problema, che esiste una condizione ancora più difficile nella relazione tra umani: la condivisione della gioia.

              Per l’assenza di questa capacità ho visto consolidarsi ostinate e tenaci barriere tra le persone, ho assistito a situazioni emotive di allontanamento dall’altro causa di subdoli moti di gelosia quando non di invidia, ho incontrato insomma non di rado quel disagio interiore che induce la persona a chiedere aiuto e che ho provato a risolvere.

Simuliamo  le due ipotetiche situazioni, in una comune relazione tra adulti (non necessariamente tra agevolatore e cliente che implica una condizione particolare): la prima in cui ci troviamo di fronte ad una seria difficoltà dell’altro, la seconda in cui l’altro ci coinvolge in una sua condizione di gioia e soddisfazione.

Nel primo caso, che cosa proviamo? Quali sentimenti, emozioni segnano il nostro animo? quale desiderio avvertiamo più prepotente e immediato?

Certamente proviamo, in rapporto alla nostra sensibilità, compassione dell’altro (in senso etimologico: cum-patior), e tanta paura, o forse tante paure ...per noi, che possa anche a noi accadere di vivere situazioni di difficoltà. Anche se la nostra vita non assomiglia neppure un pochino a quella della persona che abbiamo di fronte, le paure del futuro che con tanta cura (qui con significato latino di preoccupazione) cerchiamo di allontanare e di nascondere o di ignorare, o che con equilibrio siamo riusciti a comporre, d’un tratto sono tutte lì ammassate dentro di noi, ci chiudono la gola, ci sovrastano, ci fanno sentire vinti e più che mai desiderosi di uscire dalla situazione. Ed è per questo che ciascuno di noi –non pensiamo appunto solo al counselor- si focalizza sul desiderio prepotente e immediato di aiutare la persona che ha di fronte, perché risolva il problema, perché lo superi, o almeno perché riesca ad ignoralo (se è possibile aiutar-la sarà possibile anche aiutar-mi) e spesso attiva, talvolta improvvisando maldestramente, ogni risorsa per consolarla.

È una reazione quasi istantanea che si manifesta e non solo quando la persona che abbiamo di fronte ci è cara, ci è vicina, bensì anche quando la incontriamo per caso o è uno sconosciuto che si rivolge a noi chiedendoci aiuto.

Può anche darsi che siamo abili a farlo, o magari abbiamo studiato e ci siamo ben preparati come agevolatori a questo compito e allora il nostro aiuto sarà misurato e appropriato, persino risolutore e in tal caso ci lascerà una profonda sensazione di pacificazione interiore: il sollievo dell’altro è anche il nostro, ma è condizione rara, diremmo l’eccezione che conferma la regola.

 E la regola è che il dolore dell’altro ci coinvolge perché fa scattare in noi -generalmente ignari dei sofisticati meccanismi della comunicazione- un processo di identificazione con la persona in difficoltà.

E se la persona ci viene incontro per comunicarci la sua gioia?

Evidentemente non sente il bisogno di essere consolata, anzi ha voglia di esternare le sue emozioni e lo fa d’impulso, senza neppure chiedersi se siamo disponibili all’ascolto, se abbiamo per caso noi un problema, presa, com’è naturale, dal suo entusiasmo.

E  noi?

Di fronte alla gioia dell’altro noi in un batter di ciglia ripercorriamo la nostra condizione, la misuriamo, la ...confrontiamo e il rischio terribile che corriamo è proprio quello di sentirci frustrati perché non riusciamo ad essere così felici come quella persona che abbiamo davanti. Molti sono i motivi di rimpianto, di occasioni lasciate svanire per incertezze che ora ci appaiono colpevoli, come troppi i cavilli che sempre abbiamo sollevato su ogni questione perché non risultava perfetta come l’avremmo voluta e non abbiamo saputo coglierne il bello, il momento gratificante anche se minimo.

Mentre tutti questi pensieri si affollano nella nostra mente, l’altro parla e addirittura sembra cogliere la nostra scarsa partecipazione e finiamo per sciupare anche questo momento che poteva avvicinarci all’altro.

Non è neppure il caso di menzionare la situazione, già a priori di contrasto, in cui la gioia dell’altro desta amarezza in noi, perché è il segno di una sua vittoria, di una sfida che lui/lei ha vinto su di noi.

Mi chiedo: quando la condivisione della gioia dell’altro è anche mia gioia?

Quando la comunicazione con l’altro è limpida leale congruente efficace empatica priva di riserve emotive e/o mentali, quando con l’altro ho un rapporto disinteressato e reciprocamente leale, magari anche di affetto, quando insomma veramente in me si confondono le mie e le sue gioie, le mie e le sue soddisfazioni, gratificazioni, le mie e le sue progettualità e una sua conquista è anche mia e se nella competizione lui/lei vince su di me gioisco perché per primo riconosco il suo merito, la sua occasione fortunata e ne godo...

            Quando, quante volte nella vita possiamo dire di aver vissuto un simile rapporto con l’altro; chi oggi, in questo mondo che sembra voler fare a meno di qualsiasi valore, ci dà un simile esempio, ci invita a credere che sia possibile vivere una simile condizione?

Ora riaffiorano nitide alla mia mente immagini ormai antiche (erano i primi anni Sessanta del secolo scorso) di atleti sconfitti in una gara che per loro rappresentava un traguardo importante e per la quale si sono allenati con scrupolo e sacrificio, che gioiscono autenticamente per il vincitore, che godono per chi ha saputo fare meglio di loro e traggono da quella gioia la forza per un ulteriore loro impegno, per una propria futura conquista.

Magari potremmo ricominciare dallo sport ...se riuscissimo a disincrostarlo dagli interessi economici che lo soffocano, se... riuscissimo a goderlo come spettacolo delle meravigliose abilità dell’essere umano, se... smettessimo di esasperare ogni competizione alla ricerca di nuovi record, e se... Quanti se, sono così tanti che i propositi si fanno sogno, anzi utopia.

Rimaniamo alla realtà e curando il nostro rapporto con gli altri quando ci sentiremo felici per la felicità dell’altro, allora sapremo che un po’ di strada l’abbiamo percorsa verso la felicità ...anche  nostra

In una prossima puntata vorrei ancora riflettere, abusando della vostra pazienza, sulla condivisione in una relazione asimmetrica, ad esempio quando l’altro è un bambino o un giovane nei confronti del quale siamo chiamati ad esercitare il ruolo di educatore.

Può esistere condivisione in una relazione asimmetrica, appunto come quella che si crea tra adulto e bambino?

 

Settembre 2011                                                                                   

Cordialissimamente a tutti

 

Giancarla Mandozzi

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